È necessario stabilire quando l’ordinamento deve precisamente intervenire ed applicare il trattamento concorsuale, privando l’imprenditore delle garanzie costituzionalmente garantite.

La prima nozione civilistica di insolvenza trova la sua origine all’art. 1186 cod. civ. (libro IV delle obbligazioni), il quale così recita: “Quantunque il termine sia stabilito a favore del debitore, il creditore può esigere immediatamente la prestazione se il debitore è divenuto insolvente o ha diminuito, per fatto proprio, le garanzie che aveva date o non ha dato le garanzie che aveva promesse”.

Questa norma sembrerebbe non essere più rispondente alle esigenze delle moderne imprese. L’interpretazione tradizionale considera, in maniera inappropriata, insolvente l’imprenditore che si trovi semplicemente in una situazione di sbilancio patrimoniale.

Tale visione sembra alquanto sterile in quanto, considerando il patrimonio del debitore al momento della contrazione dell’obbligazione a garanzia generica del creditore, sembrerebbe non considerare la dinamicità del patrimonio dell’imprenditore. Secondo questa visione diverrebbe insolvente qualunque imprenditore in relazione alle dinamiche finanziarie in cui si opera.

In questa ottica dovrà necessariamente intrecciarsi le disposizioni contenute all’art. 1182, cod. civ., con quelle indicate all’art. 2740, cod. civ., in cui si attraggono nell’universo patrimoniale anche i beni futuri, attraverso l’introduzione del fattore tempo.

Il creditore, per avvalersi del beneficio della decadenza del termine, dovrà a questo punto provare che alla scadenza del debito il patrimonio sarà insufficiente.
Non potrà, dunque, mai dirsi insolvente un imprenditore che possa pagare alle scadenze i propri debiti.
Ma si può dire che nei casi in cui il debitore sia insolvente ai sensi dell’art. 5, l. fall., lo sia anche ai fini della decadenza del beneficio del termine?
Se così fosse si potrebbe affermare la coincidenza tra insolvenza concorsuale con quella presupposta all’art. 1186, cod. civ.
Così, però, non è.

Di fatto, il rischio di cui all’art. 1186, cod. civ., riguarda l’eventualità che non ci sia capienza nella garanzia patrimoniale e non si riferisce al caso in cui il debitore alla scadenza non paghi volontariamente. La sua funzione non è tanto quella di indurre il debitore a pagare ma di rendere proficua l’esecuzione forzata.

L’art. 5 l. fall. invece, qualifica l’insolvenza dell’imprenditore per la carenza dell’attributo della regolarità dei pagamenti, requisito non richiesto all’art. 1186, cod. civ., dove anche un adempimento coatto (quindi patologico rispetto alle previsioni contrattuali) soddisfa la valutazione, ostando all’applicazione della decadenza.

Presupposto oggettivo ed insindacabile che permette di accedere alle procedure del fallimento, dell’amministrazione straordinaria e della liquidazione coatta amministrativa, è lo stato di insolvenza del debitore.

L’art. 5, l. fall., al comma 2°, più che dettare una vera e propria nozione di stato di insolvenza che porta alla dichiarazione di fallimento, indica le modalità con le quali esso si manifesta, cioè “con inadempimenti o altri fatti esteriori, i quali dimostrino che i debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”.

In tal modo il legislatore ha voluto innanzitutto affermare che lo stato di insolvenza deve essere percepibile all’esterno dell’azienda, attraverso fenomeni dai quali emerga l’incapacità dell’imprenditore di adempiere le proprie obbligazioni alla loro scadenza, e con strumenti e modalità normali.
Si considererebbe non normale, difatti, la modalità di generare liquidità attraverso la svendita delle merci in magazzino, oppure il pagamento dei debiti mediante la cessione di beni.

Non è quindi il mancato adempimento di una singola obbligazione che configura lo stato di insolvenza; viceversa l’adempimento non esclude lo stato di insolvenza, se esso viene attuato con mezzi “anormali”, ovvero se esistono elementi che evidenziano una sicura prossima incapacità di adempimento, come può accadere nel caso di dati di bilancio della società dove emergono debiti a breve termine, a fronte di crediti a lungo, termine ed un già accentuato ricorso al credito.
La gravità della condizione economica del debitore può assumere manifestazioni di gravità di diverso genere. Viene considerato come insolvente non solo l’imprenditore che presenta un’incapacità definitiva di adempiere ma, allo stesso modo, si deve ritenere insolvente chi tende a non essere più in grado di adempiere con regolarità e chi, pur continuando ad adempiere, lo fa con mezzi per così dire “irregolari”. L’eccedenza dell’attivo rispetto al passivo e le cause che hanno portato l’imprenditore ad essere incapace di adempiere regolarmente non sono quindi determinanti per identificare o escludere lo stato in questione.
Secondo autorevole dottrina “lo stato di insolvenza si estrinseca in uno squilibrio finanziario dell’impresa, di cui è irrilevante la causa e che quindi prescinde da un eventuale squilibrio patrimoniale. In tal senso si ha stato di insolvenza anche in caso di una prevalenza delle attività sulle passività nella situazione patrimoniale”.

È utile ricordare che la Suprema Corte ha ritenuto che sia da escludere la sussistenza dello stato di insolvenza nel caso in cui l’impresa sia in liquidazione e risulti una sicura prevalenza dell’attivo sul passivo.
A differenza del fallimento, dove lo stato di insolvenza è condizione necessaria e sufficiente per dare accesso alla procedura, nell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese tale stato è condizione necessaria ma non sufficiente. L’art. 3 D. Lgs. 270/1999 lo richiede quale presupposto oggettivo dello stato di insolvenza, ma l’art. 2 richiede inoltre un particolare livello di indebitamento.

Il legislatore ha posto precise condizioni per l’attivazione della procedura di amministrazione straordinaria che, oltre ai presupposti oggettivi visti, deve presentare concrete prospettive di recupero dell’equilibrio economico delle attività imprenditoriali (art. 27, d. lgs. 270/1999, come modificato dall’art. 1 bis del d.l. 28 agosto n. 134, conv. in l. 27 ottobre 2008, n. 252), il quale recupero deve essere realizzato attraverso la vendita di complessi aziendali sulla base di un programma di prosecuzione dell’esercizio dell’impresa di durata non superiore ad un anno, o attraverso la ristrutturazione economica e finanziaria dell’impresa sulla base di un programma di risanamento di durata non superiore a due anni),o, ancora, per le imprese che esercitano dei servizi pubblici essenziali sulla base di un programma di cessione di beni e contratto con prosecuzione dell’impresa per non più di un anno.
Lo stato d’insolvenza, inoltre, è presupposto della maggior parte delle procedure di liquidazione coatta amministrativa, dovendosi per legge aprirsi in presenza di tale presupposto.

Tale procedura prevede peraltro, vista la sua regolazione anche soggetta a leggi speciali come presupposti oggettivi alternativi, il riscontro, da parte di autorità di vigilanza cui è sottoposta l’impresa, di “gravi irregolarità di gestione” o per motivi di pubblico interesse.

Lo stato d’insolvenza risulta il presupposto per consentire, attraverso le procedure concorsuali, la sottrazione al debitore dell’amministrazione del suo patrimonio. Ed è sicuramente una limitazione della libertà d’impresa piuttosto penetrante e, in alcuni casi, anche definitiva, nonostante l’impossibilità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni possa essere, per esempio, dovuta ad una semplice mancanza di liquidità e non per forza ad uno spropositato eccesso di passività sulle attività tale da far ritenere che sia pressoché impossibile l’adempimento.
Le cause di questa anticipata possibilità di accesso alle procedure, in un momento in cui non si è ancora certi che l’imprenditore non sia in grado di adempiere, risiedono nei meccanismi del mercato finanziario.

Il mercato finanziario è la risposta alla necessità di denaro dell’imprenditore per la gestione dell’impresa, risposta che gli permette di creare un collegamento tra necessità immediate e rendimenti futuri. Ma se il mercato giudica lo squilibrio tra flussi di cassa in entrata e in uscita un problema non normale e non risolvibile, ecco che in questo caso nessun potenziale finanziatore riterrà conveniente finanziarlo.

L’insolvente è quindi “qualcuno che il mercato finanziario ha ritenuto di bocciare” . Il verdetto dell’ordinamento sul presupposto per l’apertura della procedura concorsuale sembra quindi collegato al caso in cui, in un mercato dove vi sono soggetti disponibili a finanziare e a facilitare la gestione dell’impresa, tali soggetti hanno ritenuto fosse conveniente non farlo.

Se il mercato finanziario ha espresso un giudizio negativo sulla solvibilità dell’imprenditore anche nel lungo periodo, cioè sull’incapacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, tale stato è un indicatore sufficientemente preciso, facile da accertare e difficilmente convertibile del fatto che il soddisfacimento dei creditori, oltre a non essere regolare, è in pericolo. È infatti sufficiente che il giudice, senza difficili valutazioni sulla capacità dell’imprenditore di soddisfare i debiti nel medio-lungo termine, constati l’incapacità di soddisfarli e il mancato appoggio dei finanziatori.
Esattamente per lo stesso motivo non si potrà ritenere insolvente un’impresa che presenti uno sbilancio patrimoniale, in quanto prospettive di andamento, o credito di cui essa gode presso terzi, o fiducia che vi ripongono i soci, possono assicurare comunque un regolare adempimento.

La giurisprudenza ha invece ritenuto che si può prescindere dallo stato di insolvenza, quando il patrimonio del debitore è statico, ovvero nel caso in cui l’attività d’impresa sia cessata e posta in liquidazione. In questo caso lo sbilancio patrimoniale diviene presupposto sufficiente per l’apertura della procedura concorsuale ed al contrario, quando l’attivo risulti maggiore rispetto al passivo, il fallimento non sembra poter essere dichiarato.

Sembra, tuttavia, potersi affermare che la valutazione del patrimonio dell’imprenditore in liquidazione, anche quando questi ha ormai cessato del tutto l’impresa, non sia affatto statica ma sempre dinamica e diacronica: l’attivo viene infatti assunto a valore di realizzo, ipotizzando quanto sarà possibile ricavare al termine della liquidazione. Ma, dato che sempre di attività si tratta, l’abbandono immediato della prospettiva dinamica per quella statica è in realtà il frutto di un errore di prospettiva.

Solo quando l’attività economica è completamente cessata ed il patrimonio residuo attende solo di essere realizzato, potrebbe ipotizzarsi l’applicazione del criterio patrimoniale. Certo è che lo sbilancio dell’attivo rispetto al passivo difficilmente potrebbe, nei casi di cessazione avvenuta, ritenersi superabile da parte dell’impresa che ormai non ha alcuna capacità di produzione della liquidità corrente. Secondo un’autorevole dottrina, “si deve comprendere come l’insolvenza in realtà non sia quindi da valutare in modo differente a seconda dello stato ordinario, liquidativo o cessato dell’esercizio d’impresa: in ogni caso è la pianificazione dell’estinzione delle passività a discriminare. La soluzione al problema dell’insolvenza sembra risiedere, in definitiva, nell’esistenza di un valido e ragionevole piano di liquidazione, che preventivi e pianifichi lo svolgimento del procedimento di liquidazione”.

È evidente, infine, che chi ottiene i mezzi per pagare i creditori mediante informazioni false, dissimulazioni della reale situazione economica, patrimoniale e finanziaria, non soddisfa comunque “regolarmente” le proprie obbligazioni. Si sta parlando del debitore che trucca il proprio bilancio, continuando ad essere finanziato dal mercato.

Concludendo, in presenza di uno stato d’insolvenza, in una delle diverse modalità appena viste, i creditori hanno il diritto di chiedere l’apertura di una procedura concorsuale, rivolta a soddisfare, attraverso il patrimonio del debitore, la collettività dei creditori. Si deve ricordare che tale diritto spetta sia al titolare di un credito scaduto e non ancora adempiuto sia ai titolari di crediti non ancora scaduti, in quanto, ovviamente, anche tale soddisfacimento risulta in pericolo alla luce delle patologie patrimoniali ed economiche dell’impresa.

È il caso di ricordare, comunque, che la norma detta limiti precisi per accedere a questa possibilità. E’ richiesta la dimostrazione che il debitore abbia debiti scaduti e non pagati di importo non inferiore ad una certa soglia. Anche il debitore o, in caso di società, gli amministratori della società debitrice possono infatti avere interesse all’apertura di una procedura concorsuale, per diversi motivi:

mantenere una buona reputazione con i creditori;

evitare sanzioni penali o responsabilità penali personali;

aprire tempestivamente una procedura ai fini di tentare la conservazione del patrimonio.

L’asimmetria informativa fra creditore e debitore consente a quest’ultimo di individuare la crisi prima che si manifesti all’esterno; però, continuare l’attività in uno stato di crisi porta ad assorbire risorse che invece potrebbero essere utilizzate per soddisfare i creditori. Per questi motivi, sembra ragionevole consentire al debitore di chiedere l’apertura di una procedura concorsuale anche in un momento in cui l’insolvenza non si sia già manifestata.

La materia in esame è largamente influenzata dai fondamentali principi civilistici, come:
la responsabilità patrimoniale del debitore, ovvero l’obbligo in capo a quest’ultimo,di rispondere dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri (art. 2740 c. c.);

la par condicio creditorum, per cui i creditori hanno eguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore, salve le cause legittime di prelazione (art. 2741 c.c.);

il potere espropriativo del creditore che, per conseguire quanto gli è dovuto, può far espropriare i beni del debitore, secondo le regole del codice di procedura civile, nonché quelli del terzo quando sono vincolati a garanzia del credito o oggetto di atto revocato (art. 2910 c.c.).

Tali principi codicistici, nel novero della legge fallimentare, subiscono una torsione di adeguamento alla specificità del campo di applicazione, in particolare per il fatto che si applicano al patrimonio di un imprenditore commerciale, patrimonio soggetto ad una dinamica di mutazione continua. Per tornare ai presupposti di ammissione alla procedura fallimentare,“la giustificazione teorica delle procedure d’insolvenza risiede nella necessità di ricomporre la frattura che l’insufficienza di attivo ha creato fra potere e rischio, consegnando ai creditori – con un processo non istantaneo e suscettibile di molteplici esiti – il potere di decidere le sorti dell’impresa”. In tal senso la dottrina, Stanghellini, il problema del presupposto oggettivo, ovvero quando è necessario che l’ordinamento faccia scattare il meccanismo di attivazione della procedura di insolvenza.

Tali procedure introducono limitazioni alla libertà di iniziativa economica, la cui tutela è costituzionalmente garantita (art. 41, Cost.), e la cui giustificazione ricorre solo quando in pericolo vi sia un bene di rilevanza costituzionalmente altrettanto elevata. In tale prospettiva, di conseguenza, non può non escludersi che l’eventuale incapacità dell’imprenditore, quale gestore dell’attività, sia sufficiente a legittimare l’intervento statale: l’ordinamento giuridico deve infatti disinteressarsi di come un soggetto utilizza il proprio patrimonio o la propria azienda, almeno fino a che egli adempia regolarmente le proprie obbligazioni. Il valore costituzionale garantito delle procedure concorsuali si traduce, quindi, nella tutela del credito, il quale si specifica in due distinte posizioni:

perché una procedura concorsuale possa aprirsi deve sussistere una situazione di pericolo per tutti i creditori tale da giustificare l’estromissione dell’imprenditore, o comunque una rilevante limitazione dei suoi poteri;

il rimedio a tale situazione di pericolo che l’ordinamento offre va a beneficiare e tutelare tutti i creditori, e non soltanto quelli che vedono già inadempiuti i loro crediti.

Il controllo non può che essere trasferito a tutti i creditori o a un soggetto (il curatore) che agisce nell’interesse dei creditori come collettività. Individuare quando sussista tale situazione di pericolo per il soddisfacimento di tutti i creditori costituisce un problema non di poco conto.

Quali sono i presupposti che legittimano quindi il creditore ad esperire una procedura concorsuale? La risposta a tale domanda non può che essere quella di dover analizzare i vari livelli di insolvenza (ovvero il presupposto oggettivo) i quali caratterizzano l’accesso alle diverse procedure previste dalla legge fallimentare, non dimenticando però che oltre al presupposto oggettivo, a stabilire o meno l’ammissione a tali istituti, c’è anche il presupposto soggettivo.

La definizione del significato di imprenditore è sancito nel dettato positivo della norma. Il nostro codice civile, art. 2082 cod. civ., stabilisce testualmente che è imprenditore chi esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi.

Il rischio economico è connaturato all’attività di impresa. Ciascun imprenditore ha davanti a sé l’eventualità di poter divenire insolvente, qualora la propria attività di impresa non sia in grado di essere economicamente in equilibrio. Un’impresa che non produce le risorse economiche sufficienti per far fronte alle obbligazioni assunte genera un comportamento che altera le relazioni commerciali.

La continuazione dell’attività d’impresa in simili condizioni di squilibrio genera, essa stessa, alterazioni del sistema complessivo commerciale e produce una sostanziale sottrazione dal rischio economico. In genere è il mercato stesso in cui l’impresa opera ad espellere dal sistema commerciale i soggetti insolventi.

In simili situazioni assume particolare rilevanza il governo della crisi, definito ordinariamente come “l’insieme degli strumenti destinati a disciplinare l’indicata espulsione dell’imprenditore dal mercato”.

Ma la questione del “governo” della crisi implica anche la “regolamentazione di una fase dell’attività dell’imprenditore commerciale, fase che talvolta può essere anche di natura temporanea, in particolare di quel momento della stessa in cui l’imprenditore è insolvente” (art. 2221, cod. civ.).

A questo punto occorre tratteggiare, sia pure brevemente, il concetto che riguarda la natura dell’attività svolta dall’imprenditore.
In caso di insolvenza, al fine di instradare la regolazione della crisi verso la giusta procedura da utilizzare, si deve distinguere tra:l’imprenditore commerciale privato, il quale è sottoposto è sottoposto al fallimento in base all’art. 2221 cod. civ., e l’imprenditore commerciale pubblico, soggetto invece alla liquidazione coatta amministrativa (artt. 1 e 2 l. fall.).

Le procedure sono diverse in base alla diversa situazione in cui versa l’imprenditore, poiché non può essere avviata una procedura concorsuale, se non sussistono le condizioni previste dalla legge che la legittimino.

Tali procedure, inoltre, possono essere attivate solo dopo l’accertamento dei presupposti oggettivi e soggettivi.

Anche i limiti dimensionali dell’attività portano ad una diversa risoluzione del tema in questione. I limiti richiamati, in effetti, servono soprattutto ad operare una distinzione tra piccolo imprenditore (nella sua nuova definizione), escluso da qualsiasi procedura, imprenditore medio-grande, sottoposto invece alla disciplina ordinaria del fallimento, e grandissimo imprenditore, il quale è soggetto alla disciplina speciale dell’amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi.

Ancor prima dell’entrata in vigore del Testo Unico era opinione dominante ricondurre le società in mano pubblica nel perimetro della loro natura privata, rimanendo, quindi, assoggettabili al fallimento ed al concordato preventivo.

Oggi il Testo Unico ne conferma l’assunto.

In proposito, si è sostenuto che, quantunque pubblico sarebbe il soggetto che partecipa alla società, quest’ultima resta comunque privata, come tale assoggettabile a fallimento.

La dottrina evidenziata trova nel Decreto Legislativo la sua assoluta conferma in raccordo con il fatto che il legislatore, nel dettare poche norme (artt. 2448 e 2451 cod. civ.) con riferimento alle società con partecipazione dello Stato o degli altri enti pubblici, avrebbe con ciò manifestato la volontà di assoggettare queste ultime, salvo quanto stabilito dalle norme citate, alla medesima disciplina prevista per le società in mano privata. Del resto non sarebbe stato possibile trattare la materia fuori da tale contesto normativo attrattivo alla legge fallimentare.

Si possono richiamare diversi argomenti prospettati dalla dottrina.

Innanzitutto, si ritiene che l’assoggettamento dell’attività delle società a capitale pubblico a talune regole giuspubblicistiche non ne muta la natura giuridica privatistica e la conseguente applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale.
Poi, l’esenzione dalle procedure concorsuali delle società in mano pubblica avrebbe pregiudicato sia l’interesse dei creditori sia l’interesse pubblico sia (potenzialmente) l’interesse della stessa società.

La sottrazione ai creditori del rimedio dell’esecuzione concorsuale e la possibilità di ottenere la tutela dei propri interessi mediante il ricorso alla sola esecuzione individuale lederebbe i principi di affidamento e di eguaglianza dei creditori che entrano in rapporto con la società in mano pubblica, da applicare nelle ipotesi di soggetti insolventi.

In ultimo, ove le società a partecipazione pubblica insolventi si sarebbero ritenute non assoggettabili a fallimento ed alle altre procedure concorsuali, ciò avrebbe determinato una violazione del diritto della concorrenza, nonché una disparità di trattamento tra imprese pubbliche e private lesiva non solo del dettato dell’art. 3 della Costituzione, ma anche dell’art. 106 TFUE che impone la parità di trattamento, con le stesse forme e con le stesse modalità, tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato.

Recentemente, la giurisprudenza di legittimità, dopo anni di oscillazioni, aveva già aderito alla tesi dell’assoggettabilità a fallimento delle società a capitale pubblico. Ricordiamo, in merito, la decisione 15 maggio 2013 n. 22209.

L’iter logico seguito dalla Cassazione muoveva dalla considerazione secondo cui la scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali e, dunque, di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico comporta anche che le società assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto, come già in questo lavoro accennato, attesa la necessità del rispetto delle regole sulla concorrenza.

Nella prospettiva di motivare la soggezione al fallimento della società a capitale pubblico, ripetiamo ancora prima della norma oggi in vigore, i giudici di legittimità, nella sentenza succitata, richiamano il principio costantemente enunciat, secondo cui una società non muta la sua natura di soggetto privato solo perché un ente pubblico ne possiede, in tutto o in parte, il capitale.

Particolarmente significativo è l’intervento del decreto in materia di crisi di impresa. Il T.U. stabilisce l’assoggettamento delle società a partecipazione pubblica alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, nonché, ove ricorrano i presupposti, a quelle in materia di amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi, intervenendo, in tal modo, e in maniera risolutiva, nel dibattito dottrinario e giurisprudenziale sulla fallibilità delle società a partecipazione pubblica.

Salvo quanto previsto dagli artt. 2447 e 2482-ter, cod. civ., le amministrazioni partecipanti non possono effettuare aumenti di capitale, trasferimenti, aperture di credito, rilasciare pubblica garanzie a società partecipate che abbiano registrato perdite per tre esercizi consecutivi.
Sono ammessi trasferimenti straordinari alle società se contemplati in un piano di risanamento che preveda il raggiungimento dell’equilibrio finanziario in tre anni, il piano deve essere approvato dall’Autorità di regolazione di settore, se esistente, e comunicato alla Corte dei conti.

Le pubbliche amministrazioni locali partecipanti:

– se adottano la contabilità finanziaria devono accantonare in un fondo vincolato un importo pari al risultato negativo non ripianato conseguito dalla società partecipata (accantonamento in misura proporzionale alla quota di partecipazione). Per il primo triennio, 2015-2016-2017, la norma ribadisce il criterio di applicazione progressivo, parametrato al risultato medio conseguito nel triennio 2011-2013, come introdotto dalla legge n. 147/2013;

– se adottano la contabilità civilistica, in ipotesi di perdita conseguita dalla partecipata, devono procedere con l’adeguamento del valore della partecipazione all’importo corrispondente alla frazione del patrimonio netto della società partecipata, ove il risultato negativo non sia immediatamente ripianato e costituisca perdita durevole di valore.