Regime giuridico privatistico per le società partecipate

Ancor prima dell’entrata in vigore del Testo Unico era opinione dominante ricondurre le società in mano pubblica nel perimetro della loro natura privata, rimanendo, quindi, assoggettabili al fallimento ed al concordato preventivo.

Oggi il Testo Unico ne conferma l’assunto.

In proposito, si è sostenuto che, quantunque pubblico sarebbe il soggetto che partecipa alla società, quest’ultima resta comunque privata, come tale assoggettabile a fallimento.

La dottrina evidenziata trova nel Decreto Legislativo la sua assoluta conferma in raccordo con il fatto che il legislatore, nel dettare poche norme (artt. 2448 e 2451 cod. civ.) con riferimento alle società con partecipazione dello Stato o degli altri enti pubblici, avrebbe con ciò manifestato la volontà di assoggettare queste ultime, salvo quanto stabilito dalle norme citate, alla medesima disciplina prevista per le società in mano privata. Del resto non sarebbe stato possibile trattare la materia fuori da tale contesto normativo attrattivo alla legge fallimentare.

Si possono richiamare diversi argomenti prospettati dalla dottrina.

Innanzitutto, si ritiene che l’assoggettamento dell’attività delle società a capitale pubblico a talune regole giuspubblicistiche non ne muta la natura giuridica privatistica e la conseguente applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale.
Poi, l’esenzione dalle procedure concorsuali delle società in mano pubblica avrebbe pregiudicato sia l’interesse dei creditori sia l’interesse pubblico sia (potenzialmente) l’interesse della stessa società.

La sottrazione ai creditori del rimedio dell’esecuzione concorsuale e la possibilità di ottenere la tutela dei propri interessi mediante il ricorso alla sola esecuzione individuale lederebbe i principi di affidamento e di eguaglianza dei creditori che entrano in rapporto con la società in mano pubblica, da applicare nelle ipotesi di soggetti insolventi.

In ultimo, ove le società a partecipazione pubblica insolventi si sarebbero ritenute non assoggettabili a fallimento ed alle altre procedure concorsuali, ciò avrebbe determinato una violazione del diritto della concorrenza, nonché una disparità di trattamento tra imprese pubbliche e private lesiva non solo del dettato dell’art. 3 della Costituzione, ma anche dell’art. 106 TFUE che impone la parità di trattamento, con le stesse forme e con le stesse modalità, tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato.

Recentemente, la giurisprudenza di legittimità, dopo anni di oscillazioni, aveva già aderito alla tesi dell’assoggettabilità a fallimento delle società a capitale pubblico. Ricordiamo, in merito, la decisione 15 maggio 2013 n. 22209.

L’iter logico seguito dalla Cassazione muoveva dalla considerazione secondo cui la scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali e, dunque, di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico comporta anche che le società assumano i rischi connessi alla loro insolvenza, pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto, come già in questo lavoro accennato, attesa la necessità del rispetto delle regole sulla concorrenza.

Nella prospettiva di motivare la soggezione al fallimento della società a capitale pubblico, ripetiamo ancora prima della norma oggi in vigore, i giudici di legittimità, nella sentenza succitata, richiamano il principio costantemente enunciat, secondo cui una società non muta la sua natura di soggetto privato solo perché un ente pubblico ne possiede, in tutto o in parte, il capitale.

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