La materia in esame è largamente influenzata dai fondamentali principi civilistici, come:
la responsabilità patrimoniale del debitore, ovvero l’obbligo in capo a quest’ultimo,di rispondere dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri (art. 2740 c. c.);
la par condicio creditorum, per cui i creditori hanno eguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore, salve le cause legittime di prelazione (art. 2741 c.c.);
il potere espropriativo del creditore che, per conseguire quanto gli è dovuto, può far espropriare i beni del debitore, secondo le regole del codice di procedura civile, nonché quelli del terzo quando sono vincolati a garanzia del credito o oggetto di atto revocato (art. 2910 c.c.).
Tali principi codicistici, nel novero della legge fallimentare, subiscono una torsione di adeguamento alla specificità del campo di applicazione, in particolare per il fatto che si applicano al patrimonio di un imprenditore commerciale, patrimonio soggetto ad una dinamica di mutazione continua. Per tornare ai presupposti di ammissione alla procedura fallimentare,“la giustificazione teorica delle procedure d’insolvenza risiede nella necessità di ricomporre la frattura che l’insufficienza di attivo ha creato fra potere e rischio, consegnando ai creditori – con un processo non istantaneo e suscettibile di molteplici esiti – il potere di decidere le sorti dell’impresa”. In tal senso la dottrina, Stanghellini, il problema del presupposto oggettivo, ovvero quando è necessario che l’ordinamento faccia scattare il meccanismo di attivazione della procedura di insolvenza.
Tali procedure introducono limitazioni alla libertà di iniziativa economica, la cui tutela è costituzionalmente garantita (art. 41, Cost.), e la cui giustificazione ricorre solo quando in pericolo vi sia un bene di rilevanza costituzionalmente altrettanto elevata. In tale prospettiva, di conseguenza, non può non escludersi che l’eventuale incapacità dell’imprenditore, quale gestore dell’attività, sia sufficiente a legittimare l’intervento statale: l’ordinamento giuridico deve infatti disinteressarsi di come un soggetto utilizza il proprio patrimonio o la propria azienda, almeno fino a che egli adempia regolarmente le proprie obbligazioni. Il valore costituzionale garantito delle procedure concorsuali si traduce, quindi, nella tutela del credito, il quale si specifica in due distinte posizioni:
perché una procedura concorsuale possa aprirsi deve sussistere una situazione di pericolo per tutti i creditori tale da giustificare l’estromissione dell’imprenditore, o comunque una rilevante limitazione dei suoi poteri;
il rimedio a tale situazione di pericolo che l’ordinamento offre va a beneficiare e tutelare tutti i creditori, e non soltanto quelli che vedono già inadempiuti i loro crediti.
Il controllo non può che essere trasferito a tutti i creditori o a un soggetto (il curatore) che agisce nell’interesse dei creditori come collettività. Individuare quando sussista tale situazione di pericolo per il soddisfacimento di tutti i creditori costituisce un problema non di poco conto.
Quali sono i presupposti che legittimano quindi il creditore ad esperire una procedura concorsuale? La risposta a tale domanda non può che essere quella di dover analizzare i vari livelli di insolvenza (ovvero il presupposto oggettivo) i quali caratterizzano l’accesso alle diverse procedure previste dalla legge fallimentare, non dimenticando però che oltre al presupposto oggettivo, a stabilire o meno l’ammissione a tali istituti, c’è anche il presupposto soggettivo.