Il rapporto tra la variegata platea delle società in mano pubblica e le procedure concorsuali ha assunto, nel corso di questi ultimi anni, connotati sempre più controversi.
La ormai diffusa considerazione della specialità delle società in mano pubblica sotto molteplici profili disciplinari ha condotto inevitabilmente ad interrogarsi sulla possibilità di esentare le stesse dall’assoggettamento alle procedure concorsuali, in ragione di una riqualificazione in termini pubblicistici o in ragione di una valutazione di incompatibilità tra le norme concorsuali e gli interessi tutelati dall’operare delle stesse.

Se, ormai, vi è una diffusa sensibilità in merito alla problematicità della materia ed alla necessità che venga affrontata secondo una rinnovata sensibilità, non vi è, tuttavia, analoga concordia in punto di risultati interpretativi.
Sia la normativa inserita nelle disposizioni del Codice Civile all’art. 2221 sia quella della Legge Fallimentare all’art. 1 prevedono per gli enti pubblici economici un’espressa previsione di non assoggettabilità alle disposizioni in materia di fallimento e di concordato preventivo.

Tale scelta si fonderebbe sull’idea di una presunta incompatibilità tra le finalità che ispirano l’agire di tali soggetti, nonché l’esigenza di mantenere in capo agli stessi la titolarità delle funzioni amministrative.
Gli effetti tipici della procedura fallimentare determinerebbe tanto un’ingerenza dell’autorità giudiziaria in ambiti riservati all’autorità amministrativa quanto l’interruzione del pubblico servizio erogato dall’ente.

Queste ragioni rappresentano il fondamento giuridico dello status degli enti pubblici rispetto alle procedure fallimentari. Tali soggetti, nei casi espressamente previsti dalla legge, possono essere sottoposti unicamente ad un procedimento ad hoc quale la liquidazione coatta amministrativa che, nonostante la presenza di essenziali fasi di natura giurisdizionale, presenta un carattere soggettivamente ed oggettivamente amministrativo.

La fattispecie che riguarda invece la società in mano pubblica, dopo anni di assoluta incertezza ed in assenza di norma positiva, è stata chiarita dal Decreto Legislativo 175/2016 che norma la fattispecie.

Anche se in caso di crisi il trasferimento del controllo dall’imprenditore ai creditori è necessario, esso incontra una serie di ostacoli.
Innanzitutto può non essere chiaro all’esterno quando l’impresa sia in crisi, per cui occorre porsi l’obiettivo di favorire l’emersione tempestiva della crisi in funzione della predisposizione di rimedi ancora efficaci. Se però non si offre al debitore un ruolo nella gestione della sua situazione di difficoltà, egli non sarà incentivato a denunciarla, per timore di essere subito allontanato. In secondo luogo, quando la crisi è emersa, l’impresa per poter proseguire richiede un patrimonio di conoscenze e di informazioni non sempre facilmente trasferibile. Tali informazioni possono consistere sia in conoscenze tecniche sia nel know-how relativo ai clienti e ai fornitori, alla situazione del mercato, ai concorrenti e così via. È spesso l’imprenditore, o il management, a possedere queste informazioni e a doverle comunicare ai creditori.

Si pone dunque un dilemma: coloro che hanno provocato la crisi, e che andrebbero dunque allontanati dalla gestione dell’impresa, sono necessari affinché questa prosegua la sua attività almeno nelle fasi iniziali.
Non solo: essi devono contribuire nella realizzazione di un’operazione che toglie loro il controllo dell’impresa. Inevitabilmente i creditori assumeranno un atteggiamento diffidente in questa collaborazione con il debitore: imprenditore e managers possono non essere capaci di gestire correttamente l’impresa durante la procedura concorsuale, dato che l’hanno portata alla crisi; essi possono inoltre non avere sufficienti incentivi a farlo nel migliore dei modi, dato che i risultati positivi non andranno a loro vantaggio; infine essi possono avere incentivi diversi da quello di massimizzare la soddisfazione dei creditori, dato che potrebbero utilizzare il tempo in cui ancora gestiscono l’impresa, per trasferire informazioni critiche all’esterno, in vista di un utilizzo da parte propria o di terzi.

Nonostante queste controindicazioni il patrimonio informativo di cui è in possesso il debitore fa sì che l’utilità della sua collaborazione sia innegabile e vada al di là del caso della gestione dell’impresa in crisi. Anche qualora si procedesse ad una semplice liquidazione, infatti, il debitore avrebbe spesso migliori informazioni sul valore dei cespiti da dismettere e sarebbe spesso in grado di conoscere il mercato dei potenziali acquirenti.

È frequente che sulle ceneri di una società decotta ne nasca una nuova con lo stesso oggetto e con gli stessi soci. Essa acquista dagli organi della procedura l’azienda ad un prezzo che, pur essendo insufficiente all’integrale pagamento del passivo, è superiore a quello che qualunque altro acquirente avrebbe offerto (sindrome della fenice). Proprio per incentivare la collaborazione del debitore alla soluzione della crisi più rapida e conveniente per i creditori, molte procedure d’insolvenza, in apparente violazione dell’ordine di priorità, consentono ai fornitori di capitale di rischio di trarre dei benefici dalla loro cooperazione alla soddisfazione dei creditori.

Se si rispettasse il sistema delle precedenze, infatti, i valori emergenti dal patrimonio dell’insolvente, dedotti i costi della procedura, dovrebbero essere attribuiti prima ai creditori con diritto di prelazione, quindi ai creditori chirografari e successivamente, ma solo quanto tutti i creditori siano stati soddisfatti per intero, ai fornitori di capitale di rischio, cioè all’imprenditore e ai soci. Il sistema concorsuale, tuttavia, consente di rompere quest’ordine. Nel concordato, infatti, può accadere che, anche quando i creditori non siano stati interamente pagati, l’imprenditore o, in caso di società, i soci ottengano una qualche forma di beneficio economico.

A seguito dell’insolvenza, i creditori divengono i veri fornitori di capitale di rischio: dalla situazione in cui effettuano una prestazione e ricevono un corrispettivo indipendente dai risultati ottenuti dall’impresa, passano a quella in cui sono titolari del diritto di dividersi pro quota l’eventuale utile di gestione che residua dopo che tutti i debiti dell’impresa sono stati soddisfatti.

Affidare ai creditori la proprietà o comunque il controllo dell’impresa consente di perseguire l’obiettivo di soddisfare il diritto soggettivo di credito, poiché permette di massimizzare il valore attraverso la riduzione dei costi e dei tempi delle procedure. Le procedure, infatti, sono costose, nel senso che consumano una parte dell’attivo residuo sottraendolo alla soddisfazione dei creditori. Ciò dipende dal fatto che le legislazioni fallimentari generalmente prevedono che la gestione del patrimonio sia affidata all’organo giudiziario o amministrativo, il quale non ha gli incentivi e non effettua i controlli necessari, anziché ai creditori, con conseguenti inefficienze e costi di delega.

A livello puramente teorico le parti potrebbero organizzare le procedure concorsuali autonomamente, servendosi dell’autonomia privata; in particolare il debitore potrebbe disciplinare nel contratto come distribuire i propri beni ex post in caso di insolvenza.

Con il ricorso a clausole contrattuali il debitore potrebbe procedere all’attribuzione a creditori selezionati di diritti di priorità e garanzie reali: il debitore ha tutto l’interesse a soddisfare i creditori garantiti, in quanto questi sono dotati di migliori informazioni sul suo merito creditizio. In questa logica imporre una procedura collettiva sarebbe costoso poiché comporterebbe la rinuncia all’utilizzo di tali informazioni, beneficiando indirettamente i creditori meno efficienti, ossia quelli chirografari, che comunque ricevono una quota minima della loro pretesa in caso di dissesto.

Si tratta, tuttavia, di una ricostruzione meramente teorica, in quanto è fisiologico che il debitore nel tempo veda mutare il proprio patrimonio con l’assunzione di nuove passività che un contratto di debito, anche complesso, non sarebbe in grado di contemplare.

Se anche esistesse un contratto di questo tipo, i creditori chirografari non avrebbero alcuno strumento che assicuri loro l’esecuzione dell’ accordo. Privi di tutela sarebbero, in particolare, i creditori c.d. non adjusting, che non sarebbero in grado né di imporre all’impresa la prestazione di garanzie o clausole contrattuali di salvaguardia, né di chiedere un tasso di interesse più elevato quale corrispettivo per la concessione del credito non garantito che li ripaghi per il rischio corso.

Appare inattuabile per le medesime ragioni anche la posizione di chi, pur ammettendo l’utilità di una legislazione fallimentare, sostiene che sul piano dell’efficienza occorrerebbe consentire alle parti di contrattare la procedura preferita dai creditori.

La procedura concorsuale rappresenta perciò un accordo coattivo diretto a regolamentare l’azione collettiva che i creditori chirografari trovano conveniente, vista l’impossibilità di negoziarne singolarmente i termini con il debitore al momento della stipula del contratto.

Diritto societario e fallimentare possono dunque avere un ruolo complementare come strumenti che consentono ai finanziatori dell’impresa di sorvegliare ed indirizzare l’operato del management, ruolo che in caso di insolvenza può consentire di trasformare gli stakeholders in shareholders.

Riassumendo quanto detto fino ad ora, uno degli obiettivi delle procedure d’insolvenza è trasferire il controllo dell’impresa in crisi da un soggetto che ha un sistema di incentivi distorto e inefficiente ai creditori. Il trasferimento del controllo del debitore ai creditori non risolve però tutti i problemi. Esso necessita di strutture che organizzino i creditori e di regole che diano un quadro normativo certo alle riforme e agli obiettivi con cui questo controllo deve essere esercitato.

La letteratura economica degli ultimi decenni ha cercato di individuare gli strumenti più efficienti per attribuire le attività del debitore insolvente ai creditori, senza individuare una procedura in astratto più efficiente di altre. In tutte le alternative possibili, tuttavia, il diritto della crisi delle imprese deve riconoscere poteri direttivi ai creditori, i quali poteri viceversa vanno sottratti alle autorità pubbliche, le quali devono avere solo poteri di controllo sulle procedure. Il modello che permette di ridurre al massimo i costi di transazione prevede di trasformare direttamente tutti i creditori dell’impresa in crisi in azionisti oppure di attribuire le partecipazioni ai soli creditori ordinari, lasciando inalterate le pretese dei privilegiati nella misura in cui le garanzie coprano il valore dei crediti.

La conversione dei crediti in capitale può essere una scelta dei creditori espressa mediante il voto, in alcuni tipi di procedura, ma può essere anche una soluzione distributiva imposta in luogo del riparto in denaro. I creditori, presi come gruppo e non come singoli, hanno senz’altro un obiettivo condiviso: la massima valorizzazione del patrimonio del loro comune debitore. Essi, ancorché accomunati dall’interesse al massimo realizzo, non sono membri di “un’associazione” precostituita e ben funzionante come invece i soci di una società anche in liquidazione. Essi sono cioè dei controllanti deboli.

I creditori quindi non costituiscono un gruppo omogeneo comeg li azionisti di una società in bonis, ma in caso di insolvenza entrano in conflitto. I creditori garantiti, ad esempio, a differenza dei chirografari, mirano ad una liquidazione celere anche a scapito del massimo realizzo.
La trasformazione di un gruppo eterogeneo di creditori in una classe omogenea di azionisti, con la conversione del capitale di credit oin capitale di rischio, è resa possibile dalle procedure d’insolvenza.
Queste ultime infatti:

creano fra i creditori una comunanza di interessi, vietando azioni esecutive individuali;

creano fra i creditori un’organizzazione di categoria, prevedendo la nomina di uno o più soggetti che li rappresentano e prevedendo forme di consultazione diretta e voto su alcune tipologie di decisioni;

forniscono un quadro di regole certo, tale da orientare l’operato dei diversi soggetti che intervengono nella gestione del patrimonio del debitore;

risolvono conflitti fra i vari creditori aventi interessi diversi, ad esempio attribuendo la decisione sulla soluzione concordataria della crisi ai soli creditori chirografari, quando i creditori con prelazione non possono ritenersi pregiudicati.

La continua evoluzione della dinamiche sociali incide inevitabilmente nei rapporti fra i diversi soggetti che formano la società. Le ripercussioni di tali mutazioni interesseranno anche il diritto, quale insieme di norme e principi che regolano la vita dei membri della comunità. Le regole che sovraintendono i rapporti economici fra gli individui hanno, da sempre, rappresentato uno degli aspetti principali del diritto.
Per la regolazione dei rapporti nello scambio mercantile il diritto comune è stato via via sostituito da norme di settore che ne hanno determinato la specialità.

La necessità di derogare ai rigidi principi del diritto comune fu avvertita già nel Medioevo, all’età dei Comuni, con la nascita delleCorporazioni di arti e mestieri ed il delinearsi di caratteristiche peculiari della classe mercante. Sempre più, infatti, i mercanti scambiavano beni e servizi, anziché consumarli, prendevano a prestito beni e mezzi, anziché utilizzare quelli di proprietà e mettevano in atto operazioni economiche di entità rilevante. Per questo nacque un diritto speciale, dedicato ai rapporti giuridici che coinvolgevano il mercante (l’attuale imprenditore): il diritto commerciale.

La necessità di creare norme che regolassero le vicende scaturenti da patologie dei rapporti commerciali fu conclamata all’interno di un diritto di specie che potesse governare le dinamiche giuridiche a ciò conseguenti.
Nello svolgimento della sua attività l’imprenditore si rivolge ad una platea di creditori numerosa e differenziata: al manifestarsi dell’insolvenza ogni creditore, consapevole del rischio di perdere il proprio credito, subisce l’impulso di azionare le norme giuridiche per agire sul patrimonio del debitore. Quando le passività superano le attività, i creditori tendono a sprecare risorse nel tentativo di appropriarsi dei primi “pezzi” del patrimonio del debitore, con effetti pregiudizievoli sull’unità aziendale.

Quando il debitore diviene insolvente i creditori innescano un“gioco a somma zero”: ciò che guadagna un creditore è necessariamente perso da un altro. In situazioni simili le norme sono asimmetriche, vale a dire regolano relazioni in cui i soggetti hanno differenti probabilità di ricoprire i vari ruoli. Norme che danno più spazio all’autotutela dei creditori penalizzano quelli con meno probabilità di autotutelarsi.

Pertanto è interesse dei creditori come gruppo, in caso di insolvenza, che la liquidazione dell’impresa avvenga in modo ordinato, attraverso una procedura collettiva che coordini le rivendicazioni e salvaguardi i valori aziendali, anche mediante la prosecuzione dell’attività economica, impedendo ai singoli di disgregare l’azienda.
La cessazione dell’attività d’impresa o la sua disgregazione comportano la dispersione dell’avviamento, il quale non può formare oggetto di rapporti giuridici a sé stanti, e annulla il carattere olistico di quel sistema complesso che è l’azienda.

In passato gli interessi relativi alla sopravvivenza dell’impresa erano considerati contrastanti con la tutela dei creditori; oggi tale impostazione è superata, sulla scorta dell’osservazione che spesso il valore massimo si ottiene salvaguardando l’unitarietà aziendale. Il sacrificio dei singoli creditori è compensato con il beneficio per l’intera categoria di appartenenza. I partecipanti ad una procedura d’insolvenza dovrebbero quindi avere l’incentivo ad ottenere il massimo valore dagli assets aziendali, in modo che sia facilitata la miglior distribuzione per i creditori come gruppo e che l’insolvenza non si aggravi.

Il diritto delle crisi d’impresa fa parte del diritto fallimentare. Il diritto fallimentare comprende il diritto delle crisi d’impresa, in cui la parola chiave è proprio “crisi”, la quale può essere definita come una crisi a livello giuridico, una situazione patologica in cui non viene raggiunto il risultato che era stato posto.
Si può trattare di una crisi patrimoniale e/o finanziaria in cui vige uno squilibrio patrimoniale e/o finanziario. A volte tali squilibri sono presenti entrambi, ossia il patrimonio netto è negativo con in più una mancanza di cassa (carenza di liquidità).

Altre volte può accadere che il patrimonio netto risulti essere positivo, ma, per effetto di una cospicua consistenza del patrimonio immobiliare, la scarsità di liquidità impedisce comunque all’impresa di poter assolvere alle obbligazioni in scadenza quali, per esempio, il pagamento dei fornitori. In altri casi è possibile che la causa della crisi sia generata da fattori esogeni all’impresa, che nulla hanno a che fare con le ipotesi prima accennate (patrimoniale e finanziaria). Un esempio classico potrà essere quello della introduzione di pesanti dazi dogali con la conseguente chiusura dell’unico mercato disponibile.
Indipendentemente dalle cause che hanno generato la crisi dell’impresa, questo “diritto” mira a tutelale il diritto dei creditori.

Occorre porre attenzione alle modalità con cui tale tutela può realizzarsi e anche ai limiti stabiliti dalla legge per la realizzazione di tale tutela.
Per quanto riguarda le modalità, esse sono determinate dal generale modello di economia di mercato, che caratterizza il nostro ordinamento. La tutela dei creditori può realizzarsi soltanto secondo la modalità della relazione di mercato. Come la concessione di avviare rapporti economico-commerciali e di concedere credito può determinare l’avvio della stabile attività di una impresa, così le contrarie decisioni possono determinare l’uscita dell’impresa dal mercato e la cessazione dell’attività.

Pertanto, la tutela dei diritti dei creditori è ampiamente rimessa alle decisioni dei creditori sull’impresa in crisi. Come i creditori possono decidere di continuare a finanziare l’attività in vista del superamento della crisi, così possono determinarsi a richiedere il pagamento del credito e, in mancanza, la dichiarazione di fallimento della impresa. A tal punto, realizzatasi l’espulsione dell’impresa dal mercato, i creditori potranno far valere i propri diritti nell’ambito della procedura di fallimento.

Del termine “crisi” si è cercato spesso di dare una definizione univoca.

In senso strettamente finanziario esso è considerato sinonimo di insolvenza, ritenendo in crisi l’impresa che “non sia in grado di fare fronte alle proprie obbligazioni, o meglio, quando vengano meno le condizioni di liquidità e di credito necessarie per adempiere regolarmente e con mezzi normali, alle obbligazioni contratte”.

La crisi d’impresa è causa di “allarme sociale”. Gli interessi che ruotano intorno a un’impresa sono numerosi e variegati e la crisi della stessa è spesso il risultato di un particolare intreccio di condizioni esterne e di fattori interni:
in primo luogo, i creditori dell’imprenditore, i quali individuano nella crisi l’impossibilità di ottenere quello che è loro dovuto.
in secondo luogo, la crisi pregiudica anche e inevitabilmente i lavoratori della stessa.

Più aumentano le dimensioni dell’impresa e le sue relazioni, più la questione può avere un impatto di carattere sociale le cui conseguenze possono arrivare a travolgere spesso altre imprese.
In questo modo, a risentirne, è l’intero sistema economico di un determinato ambito di riferimento, perché la crisi di un’impresa può dare luogo a crisi aziendali a catena che pregiudicano la stabilità dell’intero ambito economico.
Nell’ambito delle crisi di un’impresa, è possibile distinguere principalmente traCrisi da rigidità e Crisi da inefficienza.

La prima si appalesa quando il sistema aziendale subisce un processo di sclerosi e la sua azione incontra difficoltà con l’ambiente esterno e manifesta incapacità di reagire alle mutate condizioni che si possono verificare, le cui cause sono di natura esogena e non dipendono da fattori interni all’azienda e per questo si definiscono quali cause congiunturali (aumento del costo delle materie prime, dell’energia, instabilità dei cambi monetari e dei tassi finanziari, etc.).

La crisi da inefficienza, invece, riguarda l’ambito interno di un’azienda e si manifesta quando uno o più settori o rami di essa non produce più margini di contribuzione economica in linea con le loro specifiche potenzialità.
Si tratta di una crisi connessa a cause interne che possono dipendere ora dal diminuito patrimonio, ora dalla struttura produttiva oppure causata da una gestione non in grado di sorreggere le sfide della competizione, cioè da quegli elementi che caratterizzano le modalità di conduzione dell’impresa.

Sono cause strutturali di tipo finanziario quantitativo l’eccessivo ricorso al capitale di credito, di tipo finanziario qualitativo, il ricorso a forme di finanziamento molto onerose e di carattere organizzativo e strutturale.
Il quadro che ne esce fuori sarà quello di un’azienda in crisi. Tale situazione potrà sfociare e condurre la stessa allo stato di insolvenza.
La situazione di crisi è quella fase della vita dell’impresa che pone a rischio la prospettiva della continuazione dell’attività.

Il suo risanamento, in questa ipotesi, sarà ancora possibile.
Quando, invece, l’impresa giungerà allo stato di insolvenza allora essa non sarà più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni.

Una volta stabilita la “refertazione”della malattia la questione principale riguarderà la scelta della soluzione da attuare come rimedio a quella che può essere definita una situazione di squilibrio che compromette l’intero assetto economico, finanziario e patrimoniale dell’impresa.

Le imprese hanno un ciclo di vita che gli esperti aziendalisti amano suddividere in almeno quattro fasi:
Iniziale: lo start up è caratterizzato, nel maggior parte dei casi, da volumi di affari ridotti, bassa capacità di produrre profitti a causa dei costi di avvio della produzione e affermazione sul mercato;
Sviluppo: l’andamento degli affari e dei profitti cominciano progressivamente a migliorare, segnando trend positivi di crescita;

Maturità: l’impresa produce il volume di affari in grado di garantire buoni profitti;
Declino: l’impresa subisce un progressivo affievolimento della capacità di resistere alla concorrenza, il volume di affari regredisce e con esso i profitti fino a condurre l’impresa al termine del suo ciclo di vita.
Nel corso della sua vita ogni impresa può attraversare momenti di difficoltà economica e gestionale e, a seconda della gravita e complessità delle difficoltà, tale situazione potrà evolversi in quella particolare situazione chiamata “crisi”.

I segnali di questa condizione si manifestano nell’incapacità di fare fronte con regolarità alle obbligazioni assunte attraverso i mezzi finanziari scaturenti dal ciclo produttivo imprenditoriale o dalla venuta meno fiducia da parte degli stakeholders. Sarà compito della “governance” aziendale valutare la gravità dello stato di “crisi” in maniera tale da approntare le necessarie cure ed assumere le indispensabili decisioni.
Dovranno essere messi in campo metodi di analisi e strumenti di valutazione della gravità della situazione al fine di assumere decisioni sul “cosa fare”.

La decisione del “cosa fare” sarà il risultato della valutazione della situazione aziendale e potrà condurre anche al fallimento dell’impresa.
La recente approvazione del Testo Unico recante norme sulle società partecipate dagli Enti Pubblici, normativa attesa da diversi anni e quanto mai provvidenziale, ha posto a carico dei soggetti giuridici coinvolti obblighi e responsabilità che meritano un’attenta analisi ed introducono, al tempo stesso, l’esigenza di comprendere quanto sia importante avere uno strumento di facile utilizzo che metta in evidenza, per tempo, gli indicatori della crisi di impresa.

Nelle pagine seguenti cercheremo di fornire strumenti di analisi e comprensione dello stato “economico”, “patrimoniale” e “Finanziario” delle imprese in “mano pubblica” per prevenire le nefaste conseguenze del mancato controllo degli indicatori della “crisi d’impresa”.

La problematica riveste una particolare importanza, sia alla luce del ruolo significativo che questi soggetti hanno acquisito nel contesto economico, sia in ragione della perdurante incertezza, ai fini dell’applicazione delle diverse normative settoriali, in ordine alla loro collocazione nell’ambito dell’ordinamento pubblicistico o privatistico.
Come noto, sia la normativa codicistica (art. 2221 c.c.) che quella fallimentare (art. 1, l. fall.) stabiliscono per gli enti pubblici un’espressa esclusione dall’applicazione delle disposizioni in materia di fallimento e di concordato preventivo.

Tale scelta trova fondamento e nutrimento sull’idea della presunta incompatibilità tra le finalità proprie dell’attività degli enti pubblici e gli effetti tipici della procedura fallimentare, nonché l’esigenza di mantenere in capo a questi (enti pubblici) la titolarità delle funzioni amministrative, non consentendo l’ingerenza dell’autorità giudiziaria in ambiti riservati all’autorità amministrativa e l’interruzione del pubblico servizio erogato dall’ente.

Con riferimento alle società a capitale pubblico, il nuovo Testo Unico fa chiarezza stabilendo l’assoggettamento degli stessi alla Legge Fallimentare superando, in tal modo, le difficoltà circa la loro relative identificazione.

perchè: Per evitare il fallimento della partecipate, evitare la responsabilità del legale rappresentante evitare responsabilità solidale del collegio sindacale i comuni che partecipano sono inibiti per a creare altre partecipate con cosa: assistere per creare e implementare di cui art. 6 comma 3 (sistema di cruscotto di controllo) e art.14 consulenza nella creazione dei sistemi contabili piano strategico di risanamento art. 14