A seguito dell’insolvenza, i creditori divengono i veri fornitori di capitale di rischio: dalla situazione in cui effettuano una prestazione e ricevono un corrispettivo indipendente dai risultati ottenuti dall’impresa, passano a quella in cui sono titolari del diritto di dividersi pro quota l’eventuale utile di gestione che residua dopo che tutti i debiti dell’impresa sono stati soddisfatti.
Affidare ai creditori la proprietà o comunque il controllo dell’impresa consente di perseguire l’obiettivo di soddisfare il diritto soggettivo di credito, poiché permette di massimizzare il valore attraverso la riduzione dei costi e dei tempi delle procedure. Le procedure, infatti, sono costose, nel senso che consumano una parte dell’attivo residuo sottraendolo alla soddisfazione dei creditori. Ciò dipende dal fatto che le legislazioni fallimentari generalmente prevedono che la gestione del patrimonio sia affidata all’organo giudiziario o amministrativo, il quale non ha gli incentivi e non effettua i controlli necessari, anziché ai creditori, con conseguenti inefficienze e costi di delega.
A livello puramente teorico le parti potrebbero organizzare le procedure concorsuali autonomamente, servendosi dell’autonomia privata; in particolare il debitore potrebbe disciplinare nel contratto come distribuire i propri beni ex post in caso di insolvenza.
Con il ricorso a clausole contrattuali il debitore potrebbe procedere all’attribuzione a creditori selezionati di diritti di priorità e garanzie reali: il debitore ha tutto l’interesse a soddisfare i creditori garantiti, in quanto questi sono dotati di migliori informazioni sul suo merito creditizio. In questa logica imporre una procedura collettiva sarebbe costoso poiché comporterebbe la rinuncia all’utilizzo di tali informazioni, beneficiando indirettamente i creditori meno efficienti, ossia quelli chirografari, che comunque ricevono una quota minima della loro pretesa in caso di dissesto.
Si tratta, tuttavia, di una ricostruzione meramente teorica, in quanto è fisiologico che il debitore nel tempo veda mutare il proprio patrimonio con l’assunzione di nuove passività che un contratto di debito, anche complesso, non sarebbe in grado di contemplare.
Se anche esistesse un contratto di questo tipo, i creditori chirografari non avrebbero alcuno strumento che assicuri loro l’esecuzione dell’ accordo. Privi di tutela sarebbero, in particolare, i creditori c.d. non adjusting, che non sarebbero in grado né di imporre all’impresa la prestazione di garanzie o clausole contrattuali di salvaguardia, né di chiedere un tasso di interesse più elevato quale corrispettivo per la concessione del credito non garantito che li ripaghi per il rischio corso.
Appare inattuabile per le medesime ragioni anche la posizione di chi, pur ammettendo l’utilità di una legislazione fallimentare, sostiene che sul piano dell’efficienza occorrerebbe consentire alle parti di contrattare la procedura preferita dai creditori.
La procedura concorsuale rappresenta perciò un accordo coattivo diretto a regolamentare l’azione collettiva che i creditori chirografari trovano conveniente, vista l’impossibilità di negoziarne singolarmente i termini con il debitore al momento della stipula del contratto.
Diritto societario e fallimentare possono dunque avere un ruolo complementare come strumenti che consentono ai finanziatori dell’impresa di sorvegliare ed indirizzare l’operato del management, ruolo che in caso di insolvenza può consentire di trasformare gli stakeholders in shareholders.
Riassumendo quanto detto fino ad ora, uno degli obiettivi delle procedure d’insolvenza è trasferire il controllo dell’impresa in crisi da un soggetto che ha un sistema di incentivi distorto e inefficiente ai creditori. Il trasferimento del controllo del debitore ai creditori non risolve però tutti i problemi. Esso necessita di strutture che organizzino i creditori e di regole che diano un quadro normativo certo alle riforme e agli obiettivi con cui questo controllo deve essere esercitato.
La letteratura economica degli ultimi decenni ha cercato di individuare gli strumenti più efficienti per attribuire le attività del debitore insolvente ai creditori, senza individuare una procedura in astratto più efficiente di altre. In tutte le alternative possibili, tuttavia, il diritto della crisi delle imprese deve riconoscere poteri direttivi ai creditori, i quali poteri viceversa vanno sottratti alle autorità pubbliche, le quali devono avere solo poteri di controllo sulle procedure. Il modello che permette di ridurre al massimo i costi di transazione prevede di trasformare direttamente tutti i creditori dell’impresa in crisi in azionisti oppure di attribuire le partecipazioni ai soli creditori ordinari, lasciando inalterate le pretese dei privilegiati nella misura in cui le garanzie coprano il valore dei crediti.
La conversione dei crediti in capitale può essere una scelta dei creditori espressa mediante il voto, in alcuni tipi di procedura, ma può essere anche una soluzione distributiva imposta in luogo del riparto in denaro. I creditori, presi come gruppo e non come singoli, hanno senz’altro un obiettivo condiviso: la massima valorizzazione del patrimonio del loro comune debitore. Essi, ancorché accomunati dall’interesse al massimo realizzo, non sono membri di “un’associazione” precostituita e ben funzionante come invece i soci di una società anche in liquidazione. Essi sono cioè dei controllanti deboli.
I creditori quindi non costituiscono un gruppo omogeneo comeg li azionisti di una società in bonis, ma in caso di insolvenza entrano in conflitto. I creditori garantiti, ad esempio, a differenza dei chirografari, mirano ad una liquidazione celere anche a scapito del massimo realizzo.
La trasformazione di un gruppo eterogeneo di creditori in una classe omogenea di azionisti, con la conversione del capitale di credit oin capitale di rischio, è resa possibile dalle procedure d’insolvenza.
Queste ultime infatti:
creano fra i creditori una comunanza di interessi, vietando azioni esecutive individuali;
creano fra i creditori un’organizzazione di categoria, prevedendo la nomina di uno o più soggetti che li rappresentano e prevedendo forme di consultazione diretta e voto su alcune tipologie di decisioni;
forniscono un quadro di regole certo, tale da orientare l’operato dei diversi soggetti che intervengono nella gestione del patrimonio del debitore;
risolvono conflitti fra i vari creditori aventi interessi diversi, ad esempio attribuendo la decisione sulla soluzione concordataria della crisi ai soli creditori chirografari, quando i creditori con prelazione non possono ritenersi pregiudicati.