Per prevenire le crisi, la società ha bisogno della vitamina C dell’azienda: il Controllo.

Controllare significa monitorare i processi aziendali, verificare che i vari settori raggiungano gli obiettivi previsti per generare redditività.

Fin ora, aziende e società hanno basato la loro azione di controllo sull’analisi di bilancio.

Gli attuali sistemi di controllo, basati sugli indicatori di bilancio e sul rating, hanno però molti difetti:

1. trascurano l’efficacia e la flessibilità dell’azienda (fattori di fondamentale importanza, durante la crisi);

2. implicano procedure di analisi molto complesse e poco trasparenti;

3. misurano l’azienda nel breve periodo, non nel lungo;

4. trascurano di individuare le cause che determinato i risultati aziendali (scarsa capacità di analisi dei dati);

5. trascurano del tutto i beni immateriali, cioè per le componenti di immagine: l’azienda vale molto per il suo know how, per la capacità di saper fare, per i brevetti, i marchi, il tipo di produzione;

6. non forniscono informazioni sul rapporto con la clientela.

I vecchi metodo di controllo hanno il fondamentale difetto di essere un’analisi a-posteriori: analizzano solo dati passati e lo fanno tardi, dopo che l’inefficienza si è già manifestata e non c’è più nessuna possibilità di ottenere risultati positivi.

Il vecchio controllo di gestione è uno strumento di previsione, non di prevenzione!

Al contrario, per prevenire una crisi, il controllo deve essere:

efficace, perché deve poter raggiungere gli obiettivi prefissati;

quotidiano, perché un dirigente deve avere la possibilità di verificare, in tempo reale e in ogni momento, l’andamento dei processi aziendali;

globale: tutti i processi aziendali sono importanti, perché tutti insieme concorrono a generare ricavo.

Per essere efficace, uno strumento di controllo deve essere:

1. semplice: facilmente utilizzabile da tutti;

2. completo: non deve trascurare nessun settore aziendale, ma tenere conto della globalità dei processi;

3. sempre accessibile: deve essere consultabile in tempo reale e non a posteriori.

Il Cruscotto di controllo riunisce tutte queste caratteristiche: è gestibile mediante piattaforma digitale e si basa su uno dei modelli di controllo più efficienti degli ultimi trent’anni: la balanced scorecard.

L’azienda non è una sommatoria di dati di attivo e passivo ma un organismo vivo, complesso.

Possiamo paragonarla ad una robusta quercia, che cresce, si evolve, genera rami, foglie, fiori e frutti.

Come tutti le piante, se la quercia vuole diventare rigogliosa, deve crescere su un terreno fertile, l’humus.

L’humus aziendale è dato:

dalla qualità e sviluppo delle risorse umane;

dalle politiche degli investimenti;

dalla conoscenza del mercato;

dalle competenze tecnologiche;

dalle relazioni socio-economiche;

dalla manutenzione degli impianti;

dai rapporti con la clientela.

Questi sono gli elementi indispensabili, senza i quali un’azienda non può né crescere né restare in vita.

Nell’humus, affonda le radici il tronco, struttura portante dell’albero e via percorsa dalla linfa, che porta alimento alle foglie, ai fiori, ai frutti.Il tronco dell’azienda è costituito dai processi che irrobustiscono e creano crescita economica.

I processi formano la gestione caratteristica dell’impresa e sono ripartiti in quattro aree: acquisto, produzione, amministrazione e vendita.

In primavera, i rami gemmano dando vita ad una chioma verde e sontuosa. Allo stesso modo, i processi di base generano altre processi: i costi, la flessibilità, le relazioni con la clientela, l’innovazione e lo sviluppo, la qualità, etc. Questi costituiscono una conseguenza dei processi produttivi. Se un’azienda ha processi produttivi sani, lo sono anche i processi derivati.

L’insieme della gestione caratteristica e dei processi derivati portano alla nascita dei frutti: i ricavi.

Con tale metafora, sottolineiamo quanto le aziende siano organismi complessi: per arrivare al frutto (il ricavo), la strada è lunga.

Se l’agricoltore/imprenditore avrà avuto buona cura del suo albero, i fiori si trasformeranno in frutti; altrimenti non si raccoglierà un bel niente.

A differenza dell’albero, l’azienda deve evitare l’arrivo della maturità, che porta con sé il declino, pericolosa anticamera della crisi.

Come fa un’azienda a restare “sempre verde” e, soprattutto, quali strumenti deve adottare?

Il Cruscotto di controllo è uno strumento che permette di prevenire l’insorgere delle situazioni di rischio.

Come abbiamo spiegato, mentre la previsione è possibile solo quando si verificano già i sintomi del fenomeno che vogliamo prevedere, la prevenzione mira ad agire in modo che non si verifichino i sintomi del fenomeno di cui vogliamo evitare l’insorgenza.

Il Cruscotto di controllo permette di monitorare l’azienda in tempo reale, al fine di correggerne tempestivamente le inefficienze.

Il controllo aziendale, dunque, non può essere un processo a-posteriori, ma deve realizzarsi in fieri, ossia contemporaneamente allo svolgersi della vita aziendale.

La nuova legge sulle società partecipate obbliga a dotarsi di sistemi di previsione, che non mettono al riparo dall’insorgere della crisi. Poiché, dunque, la legge impone alle società di dotarsi di sistemi di controllo, diventa importante scegliere attentamente lo strumento più idoneo di controllo.

Il Cruscotto di controllo è lo strumento di gestione più completo che esista, perché riesce ad integrare tutti gli indicatori dei processi aziendali, inclusi il rating e i dati di bilancio, imposti dal Testo Unico.

Il declino di un settore

Il rapido cambiamento tecnologico costringe un numero crescente d’imprese a gestire la fase finale della loro attività, causata da un calo della domanda dei prodotti.

Questa situazione può essere paragonata al finale di una partita a scacchi, dove un giocatore deve fronteggiare la perdita di numerosi pezzi disponibili sulla scacchiera.

Il “finale di partita” va affrontato in modo da non pregiudicare l’integrità economico-finanziaria del sistema aziendale.

L’interpretazione della domanda gioca un ruolo fondamentale nel finale di partita: se i dirigenti fossero convinti che la domanda tornerebbe a crescere, tenterebbero probabilmente di conservare le posizioni. In caso contrario, sarebbero più disposti a ridurre progressivamente la capacità produttiva.
La percezione della possibilità di declino è influenzata dalla posizione dell’azienda all’interno del suo settore: più importante è il suo ruolo, più alte sono le barriere che ne ostacolano l’uscita.

Un altro aspetto importante è la velocità, con cui il settore sprofonda. Quando la domanda di un prodotto unico nel suo genere è minacciata dalla comparsa di un valido surrogato, può accadere che i principali produttori, sentendosi minacciati, decidono di ritirarsi dal mercato.

Questa mossa può insospettire i clienti fidelizzati, che cominciano a dubitare della futura disponibilità del prodotto.

La conseguenza è che la domanda cala ancor più bruscamente, in seguito alla diminuzione della fiducia della clientela. Se una società, infatti, annuncia troppo precocemente l’abbandono di una produzione, può accelerare il proprio declino.

Nelle fasi di caduta, possono anche crearsi delle sacche di resistenza della domanda: un prodotto in declino resiste nelle sue versioni più performanti o più convenienti.

Se per i concorrenti che rimangono in lizza la sacca di resistenza ha una struttura favorevole, il declino può essere redditizio. La clientela molto fidelizzata, infatti, è insensibile al prezzo e ai prodotti alternativi: ne consegue che le aziende che offrono prodotti di qualità superiore ottengono dei rendimenti al di sopra della media anche in un settore in declino.

Le barriere che impediscono l’uscita da un settore
Nei settori caratterizzati da un calo della domanda, esistono delle barriere all’uscita, che vincolano la società anche quando la sua redditività sta scemando.
Le barriere possono verificarsi nei seguenti casi:

determinate attività sono così strettamente dipendenti dal tipo di azienda e dai suoi processi, che è difficile cederle o liquidarle;

qualora vi fosse un gruppo di produzione, l’uscita dell’azienda potrebbe rovinare le relazioni con i clienti e con i canali di distribuzione fondamentali;

l’uscita dal settore potrebbe ridurre la credibilità finanziaria della società e diminuirne l’attrattiva per i possibili acquirenti;

quando alcune società sono integrate verticalmente, la loro interdipendenza può rappresentare una barriera all’uscita;

l’uscita può comportare alti costi (trattamento di fine rapporto con la manodopera, smantellamento delle strutture, penalità da pagare per la rottura di contratti a lungo periodo, etc.);

l’atteggiamento psicologico dei dirigenti costituisce una forte barriera all’uscita: il timore del giudizio degli altri, l’attaccamento all’impresa, i dubbi sul futuro professionale, etc.;

le istituzioni e l’opinione pubblica potrebbe creare resistenze per il timore dell’aumento della disoccupazione.

Strategie per il finale di partita

Può sembrare un paradosso, ma è possibile trarre consistenti vantaggi da un contesto caratterizzato da crisi della domanda.

Il problema principale è quello di percepire in anticipo l’andamento declinante di un settore con opportuni strumenti di pianificazione, ad esempio l’analisi di scenario. L’azienda dovrà programmare non solo le strategie possibili, ma anche il momento in cui rendere operativa la decisione.

Le strategie vincenti in questi frangenti sono:

1. la strategia di leadership;

2. la strategia di nicchia;

3. la strategia di raccolto;

4. la strategia di disinvestimento veloce.

Un’azienda che adottasse la strategia della leadership della quota di mercato tenterebbe di assicurarsi una redditività superiore alla media, diventando una delle poche aziende che rimangono in un settore in declino.

Essa comporta l’assoluta necessità di fare degli investimenti e, soprattutto, di farli prima degli eventuali competitors.

È chiaro che è sempre meno rischioso investire in attività in lenta espansione o in declino. In questo caso, tuttavia, la raggiunta posizione dominante consentirà all’azienda di avere la leadership sui costi: ciò le permetterà di ricuperare le risorse durante la fase di declino.

La strategia di nicchia ha come obiettivo l’individuazione di un segmento del settore in declino, che possa conservare una domanda stabile o in calo molto lento, con conseguente possibilità di alti rendimenti.

Nella strategia di raccolto (la quale lascia presupporre un disinvestimento controllato) la direzione cerca di ottenere la maggior quantità possibile di cash flow dell’impresa.

Si ottiene questo effetto eliminando o riducendo drasticamente i nuovi investimenti, tagliando la manutenzione degli impianti, riducendo la pubblicità e la ricerca, raccogliendo al tempo stesso i frutti dell’avviamento passato, limitando i canali distributivi, eliminando i piccoli clienti, etc.

Va precisato che il raccolto è un’opzione rischiosa, cui fa seguito solitamente la cessione o la liquidazione dell’azienda.

Con la strategia del disinvestimento veloce, la società ritiene che vendere subito sia più redditizio che disinvestire in modo controllato (strategia del raccolto).
In alcune situazioni può essere auspicabile disinvestire addirittura prima che inizi il declino. In tal caso, tuttavia, c’è il rischio che la previsione di declino possa dimostrarsi erronea e che la società sia costretta sin da subito ad affrontare le barriere all’uscita.

Gli schemi previsionali

Gli schemi previsionali hanno differenti gradi di affidabilità, di cui bisogna essere certi. È bene che l’azienda decida sin da subito quali strategie di fine partita intraprendere.

Se un’azienda può prevedere le condizioni del settore, la scelta migliore è anticipare il declino e compiere i seguenti passi durante la fase di maturità:
minimizzare gli investimenti o le altre iniziative che innalzerebbero le barriere all’uscita (salvo che non abbiano degli evidenti vantaggi per la strategia aziendale nel suo complesso);

aumentare la flessibilità delle risorse in modo che esse siano in grado di accettare materie prime diverse o produrre degli articoli collegati;

porre l’accento strategico sui segmenti di mercato che probabilmente resisteranno, quando il settore attraverserà la fase di declino.

Tutte le strategie di fine partita portano la società all’uscita: cessione o liquidazione.

Liquidare la società

Delle quattro politiche di fine partita sopra esaminate, la politica del raccolto conduce esplicitamente alla liquidazione: l’azienda viene venduta pezzo dopo pezzo.

La liquidazione può costituire un buon risultato anche quando si intraprendono strategie di leadership o di nicchia, o quando, per scarsa programmazione, non sia stata scelta alcuna strategia di fine partita. In tal caso conviene liquidare se mancano acquirenti, cioè uomini d’affari disposti ad offrire un valore di cessione accettabile.

Naturalmente, se durante l’attuazione della strategia i dirigenti notano che non sia conveniente liquidare, va valutata l’opportunità della cessione.

Cedere l’azienda

La cessione è l’esito naturale del disinvestimento veloce ed è vantaggiosa quando il settore è ancora appetibile, soprattutto quando l’azienda è rimasta perfettamente integra dal punto di vista economico-finanziario.

La cessione non è un’azione di ripiego, ma una vera e propria strategia. Come tale richiede delle operazioni preliminari che hanno il compito di aumentare il valore corrente di mercato del sistema aziendale. Per una cessione ottimale i passi principali sono:

pianificazione finanziaria preliminare: è uno degli elementi che i potenziali acquirenti tengono maggiormente in considerazione;

Scorporamento del patrimonio e incremento dei profitti: si realizza attraverso varie operazione, fra cui:

collocazione dei beni immobili in una nuova società, posseduta al 100% dai membri della famiglia;

istituzione di una consociata, avente diritto di proprietà sui macchinari e sulle attrezzature logistiche (si possono affittare questi cespiti alla società operativa dietro pagamento di un canone);

cessione delle azioni agli eredi, quando queste sono in ribasso;

mantenimento degli stipendi e dei fringe benefits del personale direttivo, entro livelli ragionevoli;

scelta dei tempi: occorre saper scegliere il momento opportuno per vendere. Si consiglia la vendita:

quando i profitti aziendali e gli indici reddituali sono in fase di forte crescita;

quando il personale direttivo è al completo ed è esperto;

quando si prevede il declino: in tal caso la vendita deve essere tempestiva;

presentazione appropriata: deve contenere dati sufficienti per descrivere l’attività dell’impresa e per mettere a fuoco le potenzialità di profitto (la presentazione non deve permettere l’identificazione della società prima che siano vagliate le prospettive migliori);

selezione dei migliori potenziali compratori: il vaglio comporta la valutazione di una decina di acquirenti, per quel che concerne la reputazione del management, il decorso finanziario e le condizioni di credito. Una successiva scrematura porterà all’individuazione dei due migliori candidati;

trattative: stabiliti i migliori compratori potenziali si avviano le trattative, per discutere le questioni relative al prezzo, ai compensi d’intermediazioni e ai tempi, al fine di eliminare possibili motivi di dissapore fin dall’inizio.

La storia di molte crisi aziendali ha come significativo punto di partenza il misconoscimento dei sintomi. Troppo frequentemente l’azienda si accorge delle difficoltà quando è già entrata in perdita.

Le società non operano in un’ottica di prevenzione, cioè non agiscono per evitare la fase di declino, prima che insorgano i sintomi della crisi.

La prevenzione si effettua dunque in tempo di pace, quando l’azienda è sana.

La prevenzione delle crisi deve investire tanto gli aspetti oggettivi, che dipendono dalla situazione del mercato, quanto quelli soggettivi, legati cioè al comportamento di chi lavora in azienda.

L’attività di prevenzione si articola su quattro livelli:

la prevenzione a livello dei fattori primari di crisi;

la prevenzione nei casi di caduta della domanda;

la prevenzione delle incapacità imprenditoriali;

la prevenzione delle crisi di liquidità nell’area finanziaria.

Descrizione del modello: un secondo cruscotto di previsione delle crisi

Il principio metodologico alla base dei modelli di previsione consiste nell’osservare il comportamento di aziende in crisi e aziende sane, con caratteristiche omogenee per dimensioni e settore, al fine di estrapolarne due serie di trend.

L’osservazione delle aziende dura alcuni anni, durante i quali si raccolgono i dati. Al termine, i dati raccolti vengono elaborati in due serie parallele: una per le aziende in crisi, una per le aziende sane.

Da ultimo, si procede al confronto, per valutare i quozienti più significativi ai fini della previsione della crisi.

Il modello di Altman

Il più significativo metodo fondato sui modelli è quello elaborato da Edward I. Altman, economista finanziario e professore alla Stern School of Business di New York. Il primo modello Altman risale al 1968 ed è basato su cinque parametri economico-finanziari e sintetizzato da un unico punteggio (Z score).

Per la sua ricerca Altman si è avvalso di un campione di 66 imprese manifatturiere, equamente distribuite fra imprese fallite e imprese sane.

Per ciascuna impresa Altman ha determinato 22 indici rappresentativi dei vari aspetti economico-finanziari di un dato periodo e ha poi selezionato i cinque quozienti che sono maggiormente in grado di evidenziare lo stato di salute dell’impresa.

I cinque fattori che incidono sul risultato finale sono:

equilibrio finanziario;

capacità di autofinanziamento;

redditività;

solvibilità;

utilizzo del capitale.

La funzione ricavata da Altman è la seguente:

Z = 2 – 1,2 x 1 + 1,4 x 2 + 3,3 x 3 + 0,6 x 4 + 0,999 x 5

I punteggi superiori a 3 indicano che l’impresa gode di buona salute; al contrario, uno score al di sotto del 1,8 indica un’impresa in crisi. Sebbene il cut-off sia stato individuato a 2,675, tutti i punteggi fra 1,81 e 2,99 devono ritenersi indice di una situazione critica.

Vediamo ora le cinque variabili individuate da Altman:

X1 = Equilibrio Finanziario: (Attivo Corrente – Passivo Corrente / Totale Attivo

Di norma la liquidità tende ad assottigliarsi in rapporto al totale dell’attivo con l’aumento delle perdite. Questo indice si è dimostrato molto più efficace dei più noti rapporto corrente e test acido.

X2 = Capacità di Autofinanziamento: Riserve Utili / Totale Attività.

Questa variabile implicitamente prende in considerazione l’età dell’impresa poiché è stata rilevata una correlazione fra l’età e il grado di rischio: le aziende più giovani risultano infatti più vulnerabili. Nelle aziende in serie difficoltà il quoziente assume spesso valori negativi.

X3 = Redditività: Utile Operativo / Totale Attività.

Indica la produttività reale, prima di interessi e tasse, delle attività dell’impresa. Va osservato che l’insolvenza sopravviene quando l’indebitamento complessivo eccede il valore delle attività, determinato in ultima analisi dalla produttività. Misurare l’efficienza diventa determinante: l’inefficienza è uno dei fattori primari di crisi. Questo quoziente è quello con la maggiore capacità di discriminare fra imprese sane e non.

X4 = Solvibilità: Patrimonio Netto / Indebitamento Totale. L’indebitamento totale comprende sia i debiti a breve che a lungo termine. L’indice mostra di quanto il totale attivo (contropartita del valore di mercato del capitale proprio più debiti totali) può ridursi prima che l’impresa diventi insolvente; quozienti inferiori a 1 evidenziano situazioni critiche.

X5 = Utilizzo del Capitale: Vendite / Totale Attività.

Evidenzia la capacità del management di generare fatturato dall’attività dell’impresa in un mercato competitivo sfruttando le risorse a disposizione. Questo indice è il secondo in quanto a capacità discriminante del modello.

Ad ognuno degli indici viene attribuito un peso diverso in base all’incidenza nella previsione della crisi. Il valore numerico totale ricavato dalla funzione, ossia lo Z score, indica in modo sintetico lo stato di equilibrio finanziario dell’azienda.

Applicando la formula d Altman è stato possibile assegnare al gruppo di appartenenza il 95% delle 66 imprese del campione e predire correttamente con un anno di anticipo il fallimento di 31 delle 33 imprese del campione.

La percentuale di accuratezza si riduce per le previsioni formulate con due anni di anticipo, essendo più remoti e meno evidenti i segni premonitori del fallimento. Tuttavia essa rimane sempre su livelli elevati, attestandosi al 82%.

Oltre i due anni la percentuale di previsione esatta si riduce drasticamente al punto da rendere il modello quasi privo di efficacia (36% di previsioni esatte a cinque anni dal fallimento).

Il modello di Altman, nato per studiare le società quotate in borsa o grandi aziende manifatturiere, è stato adattato alle piccole e medie imprese che rappresentano la parte più rilevante dei soggetti economici operanti nel nostro Paese.

In particolare sono stati modificati i coefficienti degli indici, creando così un indice di equilibrio finanziario denominato K:
K = 1,981 x X1 + 9,841 x X2 + 1,951 x X3 + 3,206 x X4 + 4,037 x X5

La situazione migliore si avrà con K > 8,1; un K compreso fra 4,8 e 8,1 indicherà una situazione intermedia; mentre una situazione critica verrà evidenziata da K < 4,8. Il modello Brancozzi

A questo punto proponiamo un modello alternativo pensato esclusivamente per aziende di dimensioni piccole e medie. Esso si sostituisce allo Z score, ma lo integra con un ulteriore studio dell’equilibrio finanziario e di quello economico, consentendo di costruire una formula finale di rating in grado di valutare il funzionamento dell’azienda.

Questo modello di rating si prefigge di pervenire ad un unico valore riassuntivo della situazione complessiva dell’impresa sia sotto l’aspetto finanziario sia economico, con la possibilità di monitorare la dinamica ed il trend di solidità nel tempo ed avere contemporaneamente uno strumento di valutazione dell’attività imprenditoriale.

Il valore finale, compreso fra 0 e 100, rappresenterà la realtà dell’impresa sfruttando anche la semplicità del parametro che rende particolarmente agevole il confronto temporale e spaziale della gestione.

L’applicazione di questo modello parte dalla riclassificazione dei dati di bilancio e dal calcolo degli indici individuando:

gli indici giudicati fondamentali agli effetti del giudizio;

il “peso” attribuito a ciascun indice in funzione della sua rilevanza;

i corrispondenti indici standard definiti non come parametri orientativi, bensì come dati di calcolo.

Il modello rappresenta una particolare applicazione degli indici ponderati nell’analisi di bilancio ed ha lo scopo di rappresentare un valido strumento per la previsione della crisi dell’impresa e per tenere sotto controllo l’attività imprenditoriale. Esso si basa pertanto su un’analisi discriminante fondata sul calcolo di un indice ponderato, ovvero di un indice che ad un determinato valore “discrimina” tra aziende sane e aziende a rischio crisi.

La logica di fondo che guida la scelta degli indicatori è la costruzione di un sistema di indici capaci di considerare gli aspetti più rilevanti della gestione e segnalare anomalie di comportamento con la massima tempestività.

Si fonda sul presupposto che l’analisi di bilancio per indici può essere utilmente impiegata come strumento di previsione delle insolvenze, anche con un buon anticipo temporale, tenendo sotto controllo la dinamica della gestione imprenditoriale.

Tra le metodologie statistiche possibili, questa analisi è la più adatta a tale scopo poiché consente di tener conto di tutte le variabili considerate simultaneamente.

I risultati ottenuti hanno validità più generale rispetto alle informazioni che possono essere dedotte dall’esame dei singoli indicatori utilizzati.

Lo studio dell’impresa è suddiviso in cinque fasi:

inserimento dei dati di bilancio;

calcolo dello Z score di Altman;

calcolo e valutazione dell’equilibrio finanziario;

calcolo e valutazione dell’equilibrio economico;

calcolo della formula finale di rating.

Il calcolo e la valutazione dell’equilibrio finanziario verrà effettuato esaminando gli aspetti principali della situazione finanziaria aziendale, in particolare:
l’autofinanziamento attraverso l’analisi del cash flow prodotto e residuo (ossia rimanente dopo l’eventuale distribuzione degli utili);

l’indice di correlazione temporale e quantitativa delle fonti e degli impieghi attraverso l’analisi del margine di struttura associata allo studio del suo trend nel corso degli esercizi;

la liquidità mediante l’analisi dell’indice di liquidità (acid test ratio) e del suo trend.

Questo ultimo aspetto è particolarmente rilevante in quanto spesso le aziende si trovano in difficoltà a causa di una gestione finanziaria non oculata, che a sua volta causa gravi insolvenze o eccessiva necessità di liquidità che vanno ad intaccarne l’equilibrio economico.

L’analisi del cash flow evidenzia cosa ha generato o assorbito liquidità nel corso della gestione: è cioè una sorta di rendiconto in grado di dire quali attività necessitano di maggior attenzione sotto il profilo finanziario.

L’analisi del margine di struttura allargato e dell’indice di liquidità immediata consentono invece di analizzare la correlazione temporale fra fonti ed impieghi e il grado di liquidità aziendale, ovvero la capacità dell’azienda di far fronte alle passività di breve termine. Tale analisi si effettua non solo sui valori istantanei riferiti ad un determinato momento, ma anche sul trend di detti valori, in quanto la valutazione del trend conferisce al modello anche una buona capacità previsionale.

La valutazione dell’equilibrio economico è importante perché la sfera economica dell’azienda ci permette di analizzare la sua performance.

Questo aspetto pertanto sarà oggetto delle seguenti analisi:

Analisi del ROI e dei relativi trend;

Analisi del ROD;

Analisi sul management e sulla valutazione del settore;

Analisi del turnover del capitale investito (TOCI).

L’analisi prosegue soffermandosi sulla rotazione del capitale investito (indicatore particolarmente rilevante anche nella sfera finanziaria), ossia sulla capacità delle vendite di rigenerare il capitale investito, aspetto questo di particolare importanza al fine di valutare la dinamicità dell’attività svolta.
Lo studio della sfera economica prevede infine un confronto spaziale delle performance valutando sia l’efficienza del management sia le caratteristiche del settore in cui l’azienda opera.

Ultimo step del modello è il calcolo della formula finale di rating che avrà come risultato un valore compreso fra 0 e 100, e che sarà l’indicatore della salute aziendale:

Rischio di default (Z score) * p1 +

Equilibrio finanziario * p2 +

Equilibrio economico * p3 =

Punteggio di rating finale

in cui p1, p2 e p3 sono i pesi “discriminanti” attribuiti ad ognuna delle tre analisi.

La particolarità del modello sta nelle opportune ponderazioni in termini di “pesi” relativi che verranno utilizzati per la determinazione dei risultati parziali in ogni step del percorso di valutazione, nonché nella sua formula finale di rating.

Altro elemento centrale nella costruzione del modello è che la diagnosi della situazione aziendale finalizzata alla previsione della crisi viene fatta seguendo due direttrici:

componente matematica (di scoring): che consente di pervenire ad una valutazione statica, oggettiva e imparziale
componente analitico-soggettiva: analisi qualitativa che permette di valutare da vicino e dall’interno l’azienda, effettuando valutazioni di tipo soggettivo e più in linea con la realtà in esame.

Confronto fra i due modelli di rating

Può essere interessante a questo punto mettere a confronto i due modelli (Altman e Brancozzi).

Un’analisi generale dei risultati ottenuti dalle applicazioni rivela che i due modelli hanno dato risultati simili e hanno indicato lo stesso trend. Per alcune aziende, però, si nota una maggiore accuratezza dei risultati del modello Brancozzi, perché integra ed incorpora il modello Altan (Z score).

La sua utilità va oltre la semplice previsione del rischio di default, perché consente di monitorare l’andamento aziendale e di adottare misure correttive per “invertire la rotta” tempestivamente ed evitare il fallimento.

L’adozione di strumenti di controllo basati sul modello Altman o Brancozzi bastano ad adempiere alla nuova normativa sulle società partecipate. Sono però strumenti di previsione, che permettono di predire la crisi a partire dai sintomi conclamati.

I metodi di previsione della crisi basati sull’intuizione si fondano sul fatto che i sintomi della crisi sono riconoscibili anche dall’esterno, in particolare da parte di quei soggetti che intrattengono rapporti con l’azienda in crisi.

I sintomi della crisi che si manifestano in qualche modo al di fuori dell’ambito aziendale possono essere così riassunti:
presentazione di un bilancio in perdita;

appartenenza a settori scadenti o in difficoltà per momentanea caduta della domanda;

perdita di quote di mercato;

palesi inefficienze nel campo produttivo e commerciale;

squilibri patrimoniali e finanziari.

Alcuni di questi indicatori possono diventare indirettamente noti ai soggetti esterni all’azienda. Certamente c’è il rischio di restare nel campo del “sentito dire”, ma le “voci di corridoio” possono essere il primo indizio d’allerta. Un fornitore potrebbe decidere di non entrare in rapporto d’affari con un’azienda, che ha fama di essere una cattiva pagatrice.

A dire il vero, quando un creditore ha accesso al bilancio dell’azienda debitrice è troppo tardi per parlare di previsione, perché la crisi è già conclamata.
Dal punto di vista dell’imprenditore, affidarsi all’intuizione è piuttosto rischioso in quanto non offre garanzie. Egli ha bisogno di metodi di previsione che gli consentano di analizzare alcuni parametri, per individuare la possibilità di una crisi con un largo anticipo temporale, prima che quella risulti dai documenti contabili e prima che i conti “vadano in sofferenza”.

La tempistica, in tal frangente, è fondamentale: gli aggiustamenti realizzati per tempo, infatti, possono contenere gli effetti più negativi e evitare gli interventi più invasivi.

Spesso l’imprenditore non riesce a percepire lo scivolamento dell’azienda nella fase di declino Egli può ritenere che la sua azienda sia sana, mentre effettivamente è già nello stadio di declino. È pertanto importante dotarsi di strumenti di controllo aziendale, capaci sia di evitare la fase di declino sia di indicare all’imprenditore la necessità di operare correttivi, per rimettere l’azienda in linea di galleggiamento.

Ritengo opportuno fare un’importantissima distinzione terminologica. Anche se possono sembrare sinonimi, il termine previsione e il termine prevenzione hanno una diversa sfumatura semantica che ne modifica profondamente le implicazioni pratiche.

La previsione (dal latino prae, prima, e video, vedere) indica la determinazione di un fenomeno futuro, attraverso l’analisi delle sue cause, ovvero dei fattori che concorrono alla sua manifestazione. Ad esempio, poniamo il caso di una partita a scacchi. Dopo una quindicina di mosse, il giocatore A si ferma ad analizzare la situazione: valutando la disposizione reciproca dei suoi pezzi e di quelli del giocatore B, arriva alla previsione che con altre tre mosse decreterà lo scacco matto. In breve, l’analisi degli elementi schierati sul campo conduce il giocatore A a dedurre che vincerà necessariamente.

La prevenzione (dal latino prae, prima, e venio, giungere) indica quell’insieme di pratiche che sono volte ad evitare l’insorgenza delle cause, dei co-fattori o dei sintomi che precedono necessariamente un fenomeno sgradito.

Prevenire, quindi, significa arrivare prima degli eventi, che sono la causa necessaria di altri fenomeni (effetti), totalmente avversati. Riprendiamo lo stesso esempio, la partita di scacchi fra due giocatori, A e B. Sapendo che A è più forte, B è costretto a giocare con accortezza, facendo del tutto per evitare che si verifichino tutte le situazioni che potrebbero condurre A alla vittoria. B previene tutte le situazioni di rischio che potrebbero condurre A ad un glorioso finale di partita: lo scacco matto.

La prevenzione, dunque, è situata – in un certo senso – ancora più a monte della previsione ed è possibile solo se già la crisi presenta dei sintomi latenti, cioè quando la crisi comincia a mostrare i suoi primi segni. La prevenzione include tutte le azioni che hanno lo scopo di evitare che possano insorgere i sintomi.
Per fare un esempio: io non posso prevedere che avrò l’influenza, se godo di ottima salute! Solo se comincio ad avere mal di gola, tosse, raffreddore e un certo indolenzimento delle ossa, posso prevedere la malattia!

Prevedere la crisi è interesse primario dell’imprenditore e non solo: anche altri soggetti (fornitori, istituti di credito, finanziatori) sono interessati a conoscere lo stato di salute dell’azienda, per adottare adeguati strumenti di tutela del credito in caso di difficoltà.

La previsione è possibile nella fase di declino dell’impresa, cioè durante la prima fase del primo stadio, quando l’azienda comincia a mostrare segnali di difficoltà. Quando le perdite sono troppe, la previsione non ha senso: la crisi è conclamata e l’azienda sta scivolando nel secondo stadio: l’insolvenza.

La società partecipata, titolarizzata dall’amministrazione pubblica, è un’azienda a tutti gli effetti
TESTO UNICO SOCIETA partecipate: obbligo di legge su previsione, sarebbe meglio farlo su prevenzione. L’art 13-14-15 è Altman o Brancozzi, mentre sarebbe meglio il cruscotto. Non serve a dire al lupo al lupo ma sparargli.

Il revisore contabile contabile è obbligato a dotarsi di un sistema di controllo di previsione; mentre è meglio farlo sulla prevenzione (e quindi cruscotto).

Si possono distinguere tre tipologie di metodi di previsione:

1.i metodi fondati sull’intuizione: si basano sulla possibilità di riconoscere i fattori di crisi osservando dall’esterno l’andamento aziendale. Identificando tali fattori è possibile prevedere l’arrivo della crisi dai suoi sintomi;

2. i metodi fondati sugli indici: gli indici che indicano lo stato economico e finanziario dell’azienda vengono confrontati con la media degli indici di aziende sane del settore di riferimento;

3. i metodi fondati su modelli di previsione, come il modello Altman (detto anche Z score) e il modello Brancozzi.

Non si può mai parlare di una sola causa scatenante della crisi, ma quasi sempre di più anomalie (quindi più cause) che interagendo fra di loro conducono il sistema aziendale al disfacimento.

In tal senso appare più corretto parlare di contemporaneo operare di più fattori di crisi, anziché di varie crisi provocate ciascuna da una specifica causa.

I fattori di crisi, sommandosi, provocano una situazione di disfacimento complessa, in cui è difficile stabilire il peso di ciascun fattore.

Facendo riferimento a casi concreti, è possibile cogliere una certa uniformità nell’operare dei fattori di crisi. In particolare, possiamo distinguere tra fattori di prima e di seconda linea, a seconda della loro successione nel tempo.

I fattori di prima linea, che occorrono all’inizio della crisi, sono:

le carenze di programmazione e di innovazione;

le inefficienze;

il decadimento dei prodotti.

Fra i fattori di seconda linea possiamo citare:

le rigidità;

gli squilibri finanziari.

Oltre alla successione cronologica conta l’interferenza fra i vari fattori, che interagendo provocano una situazione di squilibrio o di perdita.
Occorre precisare che alcuni dei fattori esaminati possono essere quantificati in tutto o in parte (ad esempio decadimento dei prodotti, squilibrio finanziario), mentre altri sono refrattari a qualunque tentativo di quantificazione (ad esempio la carenza di programmazione e innovazione).

In sintesi, l’individuazione, l’analisi descrittiva e la misurazione dei vari fattori di crisi appare come premessa non solo utile, ma spesso necessaria, in vista dell’analisi finalizzata alla pianificazione del risanamento.

A) Le crisi da inefficienza

Si ha crisi d’inefficienza quando uno o più settori dell’azienda operano con rendimenti inferiori a quelli dei concorrenti.

Le inefficienze riguardano:

l’area produttiva;

l’area commerciale;

l’area amministrativa;

l’area organizzativa;

l’area finanziaria.

1) L’inefficienza dell’area produttiva si determina con un livello dei costi superiore alla media del settore, dovuto a: disponibilità di strumenti produttivi in tutto o in parte obsoleti, scarsa produttività della manodopera, utilizzo di tecnologie obsolete, infelice dislocazione degli impianti, etc.

Poiché l’efficienza aziendale si valuta attraverso il raffronto con le imprese concorrenti, è necessario disporre di attendibili informazioni su di esse.

Purtroppo nella maggiore parte dei casi informazioni esaustive non sono disponibili: diventa allora impossibile percepire piccoli dislivelli d’inefficienza.

2) L’inefficienza commerciale è determinata in generale dall’esistenza di una sproporzione tra i costi di marketing o web marketing e i risultati da questo generati.

Ad esempio, se le attività di marketing non sono condotte adeguatamente, generano risultati inadeguati (in termini di comunicazione del prodotto, numero di nuovi contatti, numero di preventivi, volumi di vendita, sostegno dei prezzi, etc.).

In proposito, alcuni dei casi più frequenti sono:

campagne di marketing e web marketing condotte con mezzi sufficienti ma con scelte errate attorno alla differenziazione del prodotto e alla generazione di stimoli all’acquisto: tutti conoscono il prodotto, ma pochi lo acquistano;

campagne di marketing e web marketing condotte con mezzi inadeguati, le quali non raggiungono la soglia dell’equilibrio tra costi e risultati;

campagne di marketing e web marketing condotte in maniera disordinata, senza una pianificazione e spesso senza l’ausilio di personale qualificato.

Analogamente, anche una rete di vendita è inefficiente quando si verifica un’eccessiva incidenza dei costi di vendita sul fatturato e una limitata dimensione del venduto. La rete di vendita può essere mal organizzata o troppo onerosa, come nei casi di creazioni di reti di vendita diretta all’estero.

Nell’ambito dei costi commerciali i giudizi di efficienza sono molto complessi e difficilmente traducibili in misurazioni: ancora una volta, è il confronto con le altre aziende del settore e dei settori affini a dare una percezione verosimile dell’inefficienza.

Solo in situazioni di pesante inefficienza, rivelata da palesi errori del management, la stima può essere certa e univoco.

3) Nell’area amministrativa le principali situazioni d’inefficienza sono le seguenti:

eccessi di burocratizzazione, cioè procedure amministrative troppo laboriose e complesse che generano costi sproporzionati rispetto ai risultati;

gravi carenze del sistema informativo, che non consentono di disporre tempestivamente dei dati indispensabili per la conduzione dell’azienda.

Esempi classici di tale inefficienza sono: ritardi ed errori nelle operazioni di fatturazione, inefficiente gestione dei crediti verso la clientela, inadeguatezza dei controlli sugli acquisti, etc.

4) Nell’area organizzativa, la principali cause d’inefficienza sono:

la mancanza di mezzi che consentano la programmazione a breve termine, come il budget annuale;

l’assenza di una programmazione a medio-lungo termine che permette all’imprenditore di affrontare più serenamente il futuro con decisioni di più ampio respiro;

la mancanza di un organigramma chiaro che definisce i ruoli sia in vista della produzione sia in vista del raggiungimento degli obiettivi aziendali;

le carenze a livello dell’organizzazione del lavoro produttivo, del lavoro degli uffici, della manutenzione degli impianti, degli acquisti.

A volte è la struttura aziendale nel suo complesso a determinare disfunzioni e inefficienze.

A tale proposito val la pena citare l’esperienza di un rilevante gruppo editoriale italiano che, in un ampio processo di esame delle proprie strutture, rimase a metà strada tra l’organizzazione “per divisioni” in un’unica società (libri, giornali, periodici, film, televisione e pubblicità) e la distribuzione delle attività svolte in testa a numerose società.

La coesistenza per lunghi periodi di entità organizzative contraddittorie è causa di gravi inefficienze operative e strategiche.

5) Nell’area finanziaria, le condizioni d’inefficienza sono rivelate sostanzialmente da costi più elevati rispetto alla concorrenza e dalla scarsità dei mezzi a disposizione.

In realtà, bisogna distinguere due concause all’origine di tali fenomeni:

la debolezza contrattuale dell’azienda;

l’incapacità degli addetti alla funzione finanziaria.

È evidente che un’azienda con deboli strutture patrimoniali e finanziarie e con modesti risultati sia costituzionalmente in una posizione d’inferiorità durante le trattative per l’ottenimento del credito. Alcune fonti di finanziamento possono addirittura essere loro precluse per lunghi periodi di tempo, come ad esempio l’aumento di capitale. Per molti imprenditori ciò significa l’impossibilità di trattare le condizioni contrattuali dei prestiti.

Tale condizione costituisce un’inefficienza, seppure non sempre rilevabile, in quanto mascherata dalle difficoltà dell’azienda.

B) Le crisi da sovraccapacità

Le crisi da sovraccapacità (o rigidità) traggono origine da una delle seguenti situazioni:
duratura riduzione del volume della domanda per l’azienda (con conseguente riduzione reale dei ricavi), originata da fenomeni di sovraccapacità produttiva a livello dell’intero settore;
duratura riduzione della domanda per l’azienda, connessa alla perdita di quota di mercato;

sviluppo dei ricavi inferiore alle attese a fronte d’investimenti fissi precostituiti per maggiori dimensioni;

un particolare caso di rigidità, peraltro non connesso a situazione di sovraccapacità, si ha per aumenti di costi non controbilanciati da variazioni dei prezzi soggetti a controlli pubblici.

1) La sovraccapacità connessa alla riduzione dei volumi della domanda può originarsi nei seguenti casi:

ricerca di economie di scala o accrescimento delle cosiddette dimensioni minime efficienti, cioè delle dimensioni al di sotto delle quali i costi di produzione non sono concorrenziali;

caduta della domanda globale determinata da nuove correnti d’importazione e collegata al mutamento dei gusti dei consumatori;

errori di previsione della domanda;

esistenza di elevate barriere all’uscita (difficoltà per le imprese marginali di abbandonare il settore senza subire rilevanti perdite);

politiche manageriali sproporzionatamente rivolte alla produzione piuttosto che al mercato.

A tale situazione, le aziende più forti reagiscono accrescendo la propria quota di mercato; le aziende più deboli, al contrario, sono danneggiate, perché vedono ridursi sia la domanda globale sia la quota di mercato.
Se l’azienda caratterizzata da sovraccapacità non riesce rapidamente ad adattare i propri costi al mutato livello dei ricavi, nasce una pesante condizione di crisi.

Le principali categorie di costi dove è più difficile l’adattamento sono i costi fissi ed i costi della manodopera.

I costi fissi si dividono in due categorie:

costi generati dalle immobilizzazioni tecniche (ammortamenti, oneri finanziari, manutenzioni);

costi della cosiddetta “struttura aziendale” (costi della direzione generale, dell’apparato societario, dei servizi centrali, della direzione e dei servizi di fabbrica, della ricerca, delle reti distributive dirette e così via).

Per quanto concerne i costi degli impianti, data la loro natura tipicamente fissa, il processo di adattamento per fronteggiare la domanda può essere effettuato in un solo modo, cioè ricorrendo a produzioni alternative. Se queste non sono possibili, non sarà possibile l’adattamento nel breve periodo.

Per ridurre i costi di struttura è possibile tagliare i compartimenti diventati inutili, come l’ufficio acquisti, l’ufficio contabilità clienti e fornitori, gli uffici di controllo della rete di vendita, le segreterie, etc.

Come è facile constatare, l’intervento sui costi degli impianti e sui costi della struttura non è risolutivo; di conseguenza, nei settori con più alti investimenti fissi e con maggiore complessità organizzativa, i rischi di crisi da sovraccapacità sono notevolmente più elevati.
Sarà necessario, pertanto, adottare delle misure più efficaci, anche se più onerose, per controllare le quote di mercato. Una soluzione può essere la ricerca di collegamenti stabili con le clientela attraverso il web marketing e le reti di vendita diretta.

Molto più complesso è il discorso attorno all’adattamento del costo fisso della manodopera. Proprio su questo punto, molto spesso si decidono le sorti delle aziende.

Il problema è complesso, perché oltre agli aspetti economici si deve tener conto degli aspetti socio-politici, che rendono le operazioni di adattamento lunghe, elaborate e con scarse possibilità di raggiungere completamente gli obiettivi.

Se l’azienda non riesce a fronteggiare efficacemente la caduta della domanda, rischia di avviarsi rapidamente verso la fase di perdita.

2)In relazione alla perdita di quota di mercato, la sovraccapacità non riguarda l’intero settore, ma unicamente l’impresa colpita.

Le difficoltà appaiono più gravi, poiché connesse a un’inefficienza intrinseca all’azienda. L’unico modo per evitare la crisi è un sollecito processo di adeguamento dei costi, che trova spesso la resistenza delle risorse umane, mal disposte ad ammettere la necessità di dolorosi tagli all’occupazione: il personale aziendale comprende a fatica che le difficoltà riguardano solo l’azienda e non l’intero settore.

Senza provvedimenti rapidi, tali situazioni sfociano facilmente nel dissesto.

3) La rigidità causata da volumi di ricavi inferiori alle attese può avere uno dei seguenti sviluppi:
• il mancato o insufficiente aumento della quota di mercato rispetto alle previsioni: ciò avviene quando l’azienda, ipotizzando un aumento della domanda globale con relativa possibilità di incrementare la propria quota di mercato, crea nuove capacità produttive, ma viene battuta dalla concorrenza o dall’insufficienza dei mezzi adottati;

• l’errata previsione di sviluppo della domanda globale a parità di quote di mercato: una volta che nell’azienda si è verificata una sovraccapacità, non rimane che attendere che il naturale sviluppo della domanda riassorba l’eccesso di capacità, subendo pro tempore le perdite connesse alla situazione;

• tentare politiche di mercato aggressive, tese al miglioramento a breve termine della quota di mercato.

La scelta della strada migliore nasce dal confronto tra le perdite attese, i costi ed i rischi. Presa una decisione, si devono effettuare i necessari processi di adattamento dei costi.

Poiché l’aumento della capacità produttiva può condurre all’assunzione di nuova manodopera, è bene attendere, almeno nei sintomi, il verificarsi degli sviluppi attesi, prima di adeguare la struttura e l’organigramma al fabbisogno previsto.

4) L’aumento dei costi non controbilanciato da corrispondenti variazioni dei prezzi soggetti a controllo pubblico è un fenomeno tipico dei periodi d’inflazione, quando i costi si muovono velocemente al rialzo, mentre l’adattamento dei prezzi avviene con ritardo o avviene solo parzialmente.

C) Le crisi da decadimento dei prodotti
Le crisi da decadimento dei prodotti traggono origine dalla riduzione dei margini: in tal caso si assiste ad un’erosione dell’utile, imputabile alla necessità di coprire i costi fissi.

Due sono gli strumenti operativi che consentono di misurare la redditività di un prodotto (ambedue le soluzioni mettono a raffronto il prezzo medio di vendita di un dato prodotto con il costo medio):

• il margine lordo, che fa riferimento ad un costo di prodotto, calcolato escludendo determinate categorie di costi comuni, cioè di costi non agevolmente imputabili al singolo prodotto. Sono sempre esclusi i costi comuni amministrativi, commerciali e finanziari, mentre possono essere compresi o esclusi, a seconda dei casi, costi comuni industriali. Quando questi ultimi sono compresi nel calcolo del costo medio, si parla più precisamente di margine lordo industriale.
• il margine di contribuzione, che fa riferimento ad una figura di costo, calcolata escludendo i costi fissi.

Nelle fasi negative le aziende possono vedere i loro margini erosi fino al punto di subire perdite più o meno rilevanti.
Se la dimensione della perdita supera le capacità di resistenza dell’impresa, si apre un situazione di insolvenza-dissesto connessa al ciclo vitale del prodotto.

Quando il prodotto è maturo, il regresso dei margini è naturale; quando il prodotto è in decadenza, i margini possono diventare insufficienti o addirittura negativi.

Il decadimento dei prodotti può talvolta essere legato all’affermarsi di massicce correnti d’importazione, favorite da condizioni vantaggiose come l’impiego di manodopera a basso costo o la disponibilità di materia prima in loco.

Il discorso sulla dinamica dei margini va completato in un duplice senso:
– considerando complessivamente il “portafoglio dei prodotti” di una certa azienda;
– analizzando i differenti margini a livello delle varie marche di uno stesso prodotto.

Riguardo al primo aspetto, va distinto il caso dell’azienda mono-prodotto, che presenta una condizione di rischio elevato, poiché non vi sono possibilità di compensare in alcun modo le fluttuazioni dei margini.

Nelle aziende pluri-prodotto, viceversa, la riduzione dei margini di uno o più prodotti può essere parzialmente compensata dal miglior andamento dei prodotti restanti.

I rischi possono essere ancor di più attenuati operando su prodotti destinati a diversi mercati: in tal modo risulta improbabile che fluttuazioni negative dei margini si producano contemporaneamente in tutti i mercati.

Per le aziende mono-prodotto diversificare i mercati è l’unica strategia possibile per attenuare il rischio.

Fino a questo punto l’analisi ha fatto riferimento ad un prodotto omogeneo, venduto allo stesso prezzo da tutte le aziende. Spesso, però, le politiche aziendali di differenziazione mirano a distinguere il proprio prodotto da quello dei concorrenti.

Il caso classico è la distinzione mediante un marchio.

Prodotti simili di vari marchi presentano spesso prezzi diversi e, poiché i costi sopportati per la differenziazione non sono necessariamente corrispondenti ai divari di prezzo, essi presentano non di rado anche diversi margini.

Il margine diventa il criterio per giudicare i vari marchi: più il margine è elevato più un marchio è pregiato.

Tale condizione è strettamente collegata al grado di affermazione ottenuto dal marchio, al prestigio ottenuto, alla qualità garantita.

Accade così che le oscillazioni dei margini colpiscono diversamente i vari marchi. Se i margini si contraggono proporzionalmente, le aziende con margini inferiori subiscono danni maggiori.